venerdì 28 settembre 2012

COMPULSIONI

Occupato. Non ci voleva! Parcheggiava sempre nello stesso posto; la giornata così cominciava meglio, specialmente quando andava dalla dottoressa. Quello era il suo, di posto! Aveva fissato le sedute alle nove del mattino di ogni lunedì. Anche all'ospedale, prima che lo dimettessero, si erano raccomandati di “consolidare le abitudini e i rituali”, proprio così avevano detto, “per non compromettere l'equilibrio faticosamente raggiunto dopo anni e anni”, una cosa del genere. Gli piaceva essere il primo, pensare che prima di lui nessuno si era seduto su quel lettino; pensare che come per lui anche per la dottoressa Paolucci quello era il primo impegno del primo giorno della settimana; gli dava conforto, sentiva un tepore rassicurante irrorargli le tempie e sciogliersi nello stomaco. In quel modo inoltre non doveva subire il supplizio della sala d'attesa: non riusciva proprio a starsene buono e fermo sulla sedia. A nulla servivano le copertine sgargianti delle solite riviste, le stesse che trovava anche dal dentista. Faceva lunghi respiri ma finiva immancabilmente con lo stropicciarsi le dita e mangiarsi le unghie; le pareti piano piano gli si avvicinavano, via via sempre di più fino a collassargli addosso; allora qualche goccia di sudore freddo gli rigava la fronte, finché dalle raffigurazioni bucoliche si levava un gemito che in pochi secondi esplodeva in un urlo straziante. Forse avrebbe dovuto raccontarlo alla dottoressa. Con un lungo sospiro girò la chiave e, mentre il motore si ammutoliva borbottando leggermente, si abbandonò sul sedile, affranto per l'ennesima inattesa frustrazione. Le nove meno dieci. Avrebbe fatto tardi. Non andava bene. Guardò nel retrovisore e vide due occhi disgustosamente languidi, sul punto di piangere. Sgommò rumorosamente e la Simca bianca inchiodò a scossoni nel posto per invalidi. Sbatté scendendo la portiera. Cinque minuti. Si aggiustò la cravatta, con rapidi gesti si sistemò gli spessi occhiali e appiattì i radi capelli grigio-marroni dietro le orecchie. Una vecchia con un fazzoletto in testa, piegata da due stracolme buste per la spesa, gettò un'occhiata alle strisce gialle e al simbolo sul cartello; quindi si fermò un istante e distendendo tutte le rughe concentrò su di lui un'espressione di rimprovero. Lui ricambiò lo sguardo con aria assente, c'era posto per un unico pensiero: non arrivare in ritardo! L'ascensore era lento e rumoroso. Dalla volta scorsa il ragno aveva ampliato la sua ragnatela, nell'angolo su a destra. Ma non lo puliva mai nessuno? Odiava i bambini. E più di tutti odiava quello che anche adesso lo stava fissando. Calcolò che era la settima volta che rimaneva intrappolato in quell'ascensore con lui e con sua madre. Ma i genitori non insegnavano più ai figli che non sta bene fissare le persone?! Sì, era la settima volta: due volte ci si era imbattuto salendo, poi tre scendendo, di nuovo una quando saliva e poi una quando se ne andava. Sentì i pugni contrarsi. L'occhio sinistro gli formicolava, ecco arrivare il solito tic. Moccioso impertinente, con la sua facciona di mozzarella tutta sporca di lentiggini... e quei capelli rossi! Il display segnava “2”. Il ragno si mosse di mezzo centimetro verso il centro della sua mirabile costruzione. Espirò lentamente e a lungo, socchiudendo gli occhi. Speriamo sia sparito, sparisci, sparisci...! Li riaprì di scatto e si trovò sempre piantate addosso le due fessure verdastre del mostriciattolo. Un lieve clangore accompagnò il grande “3” a cristalli liquidi rossi. Il “5” era ad una distanza immensa e la palpebra sinistra si serrava ormai due o tre volte al secondo; per il bimbo doveva proprio essere uno spettacolo molto divertente! Fissò intensamente la nuca della madre, voleva bucarla e attraversarla fino agli occhi, per farle capire che il figlio lo stava infastidendo e andava punito. In quei casi ci volevano tre o quattro ceffoni a mano aperta, in pieno viso, di quelli che ti esce il sangue dalla bocca e dal naso e che ti rimane la macchia viola per un mese. Così faceva suo padre, così si educavano i figli. Ci voleva disciplina, se no poi quella era gente che finiva per rapinare i negozi e morire di droghe e alcol. Invece lui guarda come era venuto su bene: un uomo tutto d'un pezzo, tutto coerenza e senso del dovere!. Finalmente arrivò il “5” tanto sospirato e le porte si aprirono di scatto; finalmente libero, ciao ragno, ciao neon, ciao “5”, ciao rumore, ciao signora, ciao bambino pestifero. Al bivio del corridoio prese a sinistra e con la coda dell'occhio seguì i due fin quando scomparvero; solo allora si sentì sollevato, come agli orali della maturità, quando quell'ultima domanda sul Congresso di Vienna l'aveva catapultato nel turbinio di spiaggia mare e vacanze. La grande targa ovale d'ottone sopra il campanello ammiccava con complicità, leggermente sbavata di rosso. Suonò guardandosi un istante in giro con circospezione. Il lungo corridoio era deserto. Si toccò il nodo alla cravatta, portò l'indice alla montatura di tartaruga e si sforzò di stare più dritto possibile. Scostò il nastro giallo e sospinse con cautela il pesante portone di mogano. Salutò brevemente la dottoressa abbozzando un sorriso e si stese come al solito sul lettino. Le nove, era in perfetto orario. Sentiva che anche la dottoressa, seduta alle sue spalle con le gambe accavallate, se ne compiaceva. La puntualità era un pregio che denotava encomiabile fermezza di carattere e rispetto del prossimo.
“Dunque dottoressa, questa volta vorrei iniziare raccontandole un sogno... ah, prima in ascensore c'era quel bambino, quello stro... scusi, ma è proprio fastidioso, fissa, fissa, ma che caz... cavolo guardi? E' la settima volta... E la madre poi non gli ha detto nulla, poi dicono che i giovani sono tutti delinquenti... ci credo... se lo facevo con mio padre... quella volta mi ha dato cinquanta vergate con la cinta... ho ancora le cicatrici... Basta dai, torniamo al sogno. Ecco, me lo sono segnato, bisogna scriverli, come mi ha detto lei, se no poi si scordano, uno pensa di ricordarli invece poi quando deve raccontarli non se li ricorda...e allora ecco qui...”. Estrasse dalla tasca un foglio stropicciato di un quaderno a scacchi grandi. “Sto camminando nella via sotto casa mia, è giorno. Mi guardo i piedi e sono lunghissimi. Indosso delle stranissime scarpe rosse a punta, da donna, col tacco. Mi fanno male e non ci cammino bene. Non mi vedo tutto intero, vedo solo le mie gambe con questi piedi lunghissimi e le scarpe da donna. E' una bella giornata, c'è il sole e il cielo è limpidissimo. Sembra estate, fa molto caldo. Ma non mi sento felice. In estate di solito sono felice. Ho come una sensazione di disagio. Non è paura, è come... come di qualcosa che mi fa schifo... tipo un gatto spiaccicato per strada, con le budella di fuori e la lingua fra i denti. Ma per strada non c'è nulla, neanche una macchina. Poi mi accorgo... nel sogno dico... ho la sensazione di accorgermi che qualcosa non torna... infatti non è proprio la strada di casa mia: non ci sono né i lampioni né la fila di pioppi. Mi vedo dal di fuori: sono piccolo, avrò otto o dieci anni. Indosso i jeans e quelle scarpe strane di prima, ma ho i capelli lunghi e biondi, con tanti boccoli. Non li ho mai avuti così. I miei sono castano scuro e li ho sempre portati corti, anzi... già adesso che vado per i quaranta sono abbastanza pelato...”. Gli sfuggì un sorriso ma subito il tono tornò serio. “Sopra invece porto una maglietta bianca, ma è a brandelli; sulla schiena ho dei solchi lunghi e profondi che grondano sangue... lascio una scia di sangue dietro di me man mano che cammino, ma non sento dolore. Poi la scena cambia all'improvviso. Sprofondo in delle specie di sabbie mobili, ma come di petrolio, nere. Mi dibatto con tutte le mie forze per respirare, per uscire, per sopravvivere, ma alla fine vengo inghiottito. Cado in una caverna. E' tutto buio e fa freddo. Cammino carponi in un tunnel lungo e stretto. Sento sui palmi delle mani il viscido della fanghiglia, la giacca mi si imbratta sempre di più di terra. Vado avanti, non ho scelta, continuo a proseguire carponi di fronte a me, anche se non vedo niente. Sento come una voce che mi dice di continuare, c'è come una forza che mi spinge da dietro. Ad un certo punto sbatto la testa su uno spuntone di roccia e mi cadono gli occhiali; li calpesto col ginocchio e sento le lenti infrangersi. Allora mi assale una paura cieca, mi sento perduto... poi d'un tratto la paura si trasforma in odio, in collera, sempre qualcosa di cieco, senza scampo... come qualcosa di... come dire...ineluttabile. Sì, ecco: ineluttabile! Questa è la parola giusta! La scena cambia ancora: sono di nuovo sulla stessa strada di prima, ma stavolta non sono più bambino, sono grande. Sono vestito proprio come ora. Il cielo non è più sereno ma tutto coperto di nuvoloni grigi e c'è lo stesso freddo della grotta di prima. Sento che è proprio lo stesso freddo dell'altra parte del sogno, trasportato lì dall'altra parte del sogno voglio dire... ha capito cosa intendo dottoressa?”. Abbozzò un mezzo sorriso, sospirò malinconico e riprese “ Vedo venirmi incontro una moltitudine di gente; all'inizio sono tutti minuscoli in fondo alla via lunghissima ma ad ogni passo guadagnano decine di metri; in pochi istanti quella folla smisurata copre tutto l'orizzonte, mi stanno davanti... ma non sono persone normali: sono alti tre metri e tutti vestiti uguali, giacca cravatta pantaloni e scarpe nere. Ma la cosa più inquietante è che non hanno volto. Al posto della faccia hanno quell'alone che mettono alla televisione per nascondere l'identità dell'intervistato. Mi guardo le mani e vedo che mi è spuntato un coltello, un lunghissimo coltello da cucina. Poi le mani e il coltello sono tutti sporchi di sangue. Ecco, finito! Il sogno finisce così. L'ho fatto tre notti fa. Che ne pensa, dottoressa?... Ops, mi scusi dottoressa, vedo che il tempo è scaduto, sono le dieci in punto; vorrà dire che me lo spiegherà nella prossima seduta. Bene, ora vado, buongiorno dottoressa”. Andando alla porta inciampò in un contrassegno giallo di plastica con un numero nero a caratteri cubitali. Lo rimise in piedi e restò un attimo perplesso: tutto attorno sulla moquette c'era una grande macchia scura. Strano, entrando non ci aveva fatto caso. “Ah dottoressa...”, si riscosse di colpo accendendosi freneticamente in viso, “le è caduta la penna...”. Raccolse un'elegante stilografica in argento che spuntava da sotto un comò ribaltato e la appoggiò sulla sedia vuota dietro al lettino su cui giaceva fino a un attimo prima. “Di nuovo buona giornata, ci vediamo lunedì prossimo. Puntuale alle nove, come sempre”. Rivolse un ultimo cenno di saluto alla sedia vuota, riattaccò allo stipite il nastro giallo e prese le scale. Niente ascensore questa volta. A quell'ora la ragnatela del ragno aveva intasato tutta la cabina. E poi il solo pensiero di rivedere quel ragazzino lo faceva uscire dai gangheri. E non era proprio il caso di guastare il momento... dopo la terapia con la dottoressa Paolucci si sentiva così bene... bene da morire!!!

domenica 9 settembre 2012

LA STELLA ALPINA

Aprì lentamente gli occhi. La fredda luce dell'alba filtrava dagli scuri. Attese qualche istante, poi iniziò a scostare il piumone con cautela, lanciando rapide occhiate alla moglie girata su un fianco. Raccolse al buio i vestiti preparati la sera prima, sulla sedia di vimini accanto al basso comò di rovere. Si sforzò di attraversare il parquet a grandi falcate leggerissime. Richiuse piano la porta, tenendo fino all'ultimo gli occhi sui capelli biondo paglia che sbucavano dal piumone e si stagliavano nella grande testata in legno scuro. Volle credere di non averla svegliata, ma in fondo sapeva che di lì a poco l'avrebbe vista alla finestra.
Arrivato in cucina aprì le tende e sbirciò il tempo. Era sereno, le chiome degli alberi quasi immobili. Con gesti lenti preparò la moka e la sistemò sul fornello. Tirò fuori dalla credenza la crostata ai mirtilli. Sorrise pensando all'anno passato, quando si era messo in marcia sotto il diluvio, abbagliato dai fulmini e stordito dai tuoni. Lo zainetto era sotto il tavolo, pronto dalla sera prima come i vestiti. Dentro non c'erano funi, picchetti e moschettoni, ma tre pagnottelle, del pecorino, una bottiglia d'acqua e il cellulare per le emergenze. Finora non gli era mai servito, grazie a Dio, pensò mentre sorseggiava il caffè e si tagliava due grosse fette di crostata. Si preoccupò di non fare troppo rumore scostando il pesante portone di legno. Una folata di brezza lo investì fredda e pungente, ma piacevolissima. Calzò il berretto in testa, si stiracchiò e si sgranchì un po' le gambe; le due ore di cammino che lo attendevano sarebbero state un riscaldamento sufficiente.

Appena imboccato l'umido sentiero tra le querce si voltò a guardare la baita d'abete rosso con tetto in pietra. L'aveva costruita tutto da solo. Passo passo, anno dopo anno, aveva dato forma alla casa che sognava fin da bambino. La famiglia e gli amici non avevano mai capito perché fosse andato a vivere proprio lì, proprio in quel momento.
Dal piccolo comignolo si levò un flebile rivolo di fumo che pigramente scemava nel cielo ora più limpido. La tendina ornata di girasoli si scostò leggermente e apparve sua moglie che come sempre lo salutava avvolta nella grande coperta rosa, con una tazza fumante in mano e il solito sorriso affettuosamente beffardo: ormai lo beccava sempre. Pazienza, questo non avrebbe di certo sminuito la sua impresa. Le rivolse scherzosamente un “attenti” militaresco e si voltò a proseguire il cammino.

Un sole più energico bucava le chiome delle querce e dei faggi, ne risplendevano i cespugli screziati di anemoni viola e bianchi. Seguiva i suoi pensieri a testa bassa, al ritmo degli scarponi sempre più inzaccherati. La sua era stata una fuga, un tirarsi indietro? I genitori pensavano di sì. Quante litigate al crepitio del fuoco, con la neve che planava soffice fuori dalla finestra! In fondo era felice. O credeva solo di esserlo? Un'ombra gli tagliò la strada, alzò la testa di scatto e intravvide un falco sfrecciare tra il verde delle fronde nell'azzurro del cielo. In quel punto il sentiero si allargava, il bosco si diradava e cominciava a scorgersi la parete. Per chi lo faceva in realtà? Gli apparve l'amorevole sorriso della moglie: per vent'anni l'aveva forse ingannata?
Corse col pensiero alla fotografia: i capelli sempre biondi, ma un po' più lunghi; incantevoli occhi azzurri al posto di quelli marroni e invece della coperta rosa una sgargiante giacca a vento rossa bianca e blu. Non era necessario che lei sapesse. Non era più quell'uomo. Sua moglie si era innamorata del taglialegna solitario e gentile che era diventato. Tacere significa mentire? No, non aveva mai finto. In entrambe le vite era stato onesto e leale. E molto innamorato. La tragedia l'aveva trasformato. Di colpo via dalla grande città, dal lavoro e dagli amici. Verso un nuovo inizio. Proprio in quel luogo.

Infilò il piede destro nella piccola rientranza e allungò il braccio sinistro sul groviglio di arbusti che sbucavano dall'ampia fessura. I gesti si susseguivano automaticamente, si arrampicava sicuro e tranquillo.
Iniziava a sudare sotto la camicia di pile, ma continuava spedito. Dopo un quarto d'ora giunse al primo spiazzo. Appoggiò lo zaino a terra e si stese a sedere, allungando le gambe. Aveva le spalle un po' indolenzite. Laggiù, una decina di metri più in basso, uno scoiattolo annusava le sue impronte sgranocchiando il pezzettino di formaggio che gli aveva gettato. Anche lui lassù mangiava, a piccoli morsi, seguendo due nuvolette che passavano lentamente. Si sdraiò supino e rimase a contemplare il cielo terso. Anche con lei, quella volta, si erano fermati lì.
Mentre si issava a fatica sulla vetta, di nuovo la visione della rudimentale capannina di cemento e mattoni grigi lo rincuorò profondamente.
“Ciao Angela”, esclamò inginocchiandosi. La ragazza gli sorrideva dalla fotografia. Indugiò a lungo, con le lacrime agli occhi, sui vaporosi capelli biondi e sui sorridenti occhi celesti. La giacca a vento era la stessa che indossava quel giorno, quella rossa bianca e blu. Aveva anche lo stesso sorriso, quel giorno, quando scherzavano felici per quell'arrampicata fuori programma, in quel piccolo rifugio tutto per loro.
Si recò nel punto dove era scivolata. Poco distante il gruppo di stelle alpine resisteva ancora.

“Sono tornato”, disse spalancando il portone e pulendosi gli scarponi. Sua moglie lo aspettava ancora avvolta nella coperta rosa, con un sorriso raggiante. Il fuoco crepitava vivacemente, l'orologio a cucù sul caminetto faceva l'una. La tavola era imbandita di cappelletti fumanti, un vassoio d'arrosto misto, uno stinco di maiale al forno e una torta di mele fatta in casa.
“Ta-daaan!!! Buon anniversario amore mio!”, esclamò facendo apparire da dietro la schiena una stella alpina.

martedì 4 settembre 2012

ALLARME ROSSO

La chiamata mi aveva profondamente turbato. Premetti il tasto giallo sotto il semi-manubrio di destra e la moto ad aero-propulsione si catapultò a 315 Km/h senza il minimo rumore, squarciando il deserto con una fulva scia schiumosa. All'orizzonte iniziava a stagliarsi l'enorme cancellata. Il puntino blu al centro sapevo essere il cartello metallico che scoraggiava potenziali intrusi con la minaccia dell'alta tensione. Azionando il pulsante sotto il semi-manubrio di sinistra vidi accendersi in lontananza il lampeggiante e il cancello si ritrasse fino a lasciare il solito varco di cinque metri. Non sapendo chi o cosa avrei trovato oltre quella soglia saltai giù di sella appena l'ebbi varcata. I sensori di peso spensero il reattore, la moto fluttuò ancora qualche secondo e andò ad adagiarsi contro la postazione di controllo. Era sinistramente deserta. L'allarme proveniva dal laboratorio 1. Estrassi la pistola laser e mi guardai intorno con circospezione. Non un rumore. La struttura è piuttosto semplice: dopo il quadrato del muro di cinta con la cancellata d'ingresso c'è il gabbiotto dove Sam scansiona il personale e il materiale in entrata e in uscita; da lì una lingua d'asfalto sufficiente al transito dei cingolati più grossi porta dritta all'imponente silos centrale. Quello è il laboratorio 1: un cilindro largo trenta metri e alto una cinquantina, senza finestre, fasciato a mezz'altezza da una banda rossa su cui campeggia il numero corrispondente. Certo noi militari non brilliamo di fantasia quanto a planimetrie architettoniche: rispettivamente alla sua sinistra e alla sua destra si ergono altri due torrioni differenti solo per i numeri che recano verniciati: il 2 e il 3. Dall'esterno nulla comunica la maggior importanza del laboratorio 1 rispetto ai suoi gemelli, ma di fatto quest'ultimi sono semplici magazzini di stoccaggio per attrezzature, macchinari e sostanze chimiche.
Notai che dalla guardiola partivano orme molto distanziate. Sam doveva essersi precipitato verso il laboratorio. Il perimetro non era stato violato. Come avevo potuto constatare io stesso il cancello funzionava correttamente e nel muro di cinta non erano visibili brecce o altri segni d'effrazione. Qualsiasi cosa fosse era rimasta là dentro. Visto il genere di esperimenti che vi conducevano non ero affatto tranquillo. “E' fuggito... aiuto!... fuori controllo... uccidendo...”, grida e rumori di fondo, poi la comunicazione si era interrotta. Una folata improvvisa mi gettò sabbia negli occhi. “Ingegneria genetica”, bisbigliai. Scansione positiva di retina ed impronte digitali ed ero dentro. Silenzio più assoluto. Di fronte a me un lungo corridoio con ai lati due file di porte numerate progressivamente. Erano tutte aperte e da alcuni spiragli si intravvedevano documenti sparpagliati a terra e sedie rovesciate. Mi avvicinai alla prima. Un rumore di vetri rotti mi fece sussultare: avevo calpestato un paio di occhiali. Le lenti in frantumi erano inzaccherate da una poltiglia rossastra. Mi chinai e toccai con indice e medio quell'impiastro: sangue, come temevo. Allargai un po' la porta ed entrai con cautela, l'arma sempre puntata ovunque guardassi. Jack, lo scienziato che supervisionava i progetti, era a terra supino, vicino alla scrivania. Il volto era a brandelli, come raschiato via. Erano netti i solchi di quattro artigli. Gli intestini erano ammucchiati accanto al corpo come zolle rivoltate. Un braccio tranciato di netto spuntava da sotto il mobile di fronte all'ingresso. Le ante erano divelte e molte provette erano polverizzate sul pavimento tappezzato di fogli. I muri erano imbrattati di chiazze di sangue e pezzi di interiora. Deborah, la prima assistente di Jack era riversa sulla sedia, ben lontana dalla postazione. Gli occhi vitrei puntavano il soffitto e la bocca era disgustosamente aperta in un ghigno di terrore e stupore. La gola le era stata strappata a morsi, il sangue sgorgava copioso a inzupparle il camice. Un monitor ancora integro attirò la mia attenzione. Dal piano di sopra udii un tonfo sordo seguito a breve distanza da un fracasso metallico, probabilmente il ribaltarsi di un tavolo operatorio con tutti gli strumenti chirurgici. Mi avvicinai al terminale. Si alternavano in loop due schermate: una completamente nera inondata da righe di codice e una che rappresentava il rendering di una specie di grosso cane, a fosfori verdi. La stampante gracchiava a brevi intervalli e una lucina lampeggiava di rimando. Strappai il foglio che ne penzolava. Man mano che leggevo i miei sospetti prendevano corpo. Nemmeno un agente del mio grado era autorizzato a violare la segretezza di quel tipo di file. Scorrevo frenetico la pagina, ero sempre più sconcertato. Si trattava del prototipo di un nuovo armamento. Un'alternativa ai robot. Gli androidi richiedevano costi ingenti per la costruzione e la manutenzione. Impiegati in condizioni ambientali estreme, ad esempio nel deserto o al circolo polare artico, a volte subivano avarie che li rendevano inutilizzabili e il conseguente recupero comportava un gran dispiego e sacrificio di uomini e mezzi. Il software inoltre andava periodicamente aggiornato, quando non doveva essere corretto o addirittura riscritto.
Questa volta avevano fuso in un'unica creatura i tre regni: animale, vegetale e minerale. Avevano ottenuto un essere simile a un puma, ma circa tre volte più grande. Le cellule erano state “vegetalizzate”, per così dire: era in grado perciò di ricorrere alla fotosintesi clorofilliana, provvedendo così all'infinito al suo sostentamento anche in totale assenza di cibo. Grazie ai geni dell'abete rosso poteva vivere migliaia di anni. Riguardo all'apporto del regno minerale non ci ho capito granché, sono un soldato non uno scienziato. Da quel che ho potuto intuire sembrerebbe che, quando si sente minacciato, grazie ad un particolare processo chimico può mutare il suo manto in un minerale simile al granito, impossibile da scalfire. In pratica sarebbe invulnerabile. Avrebbero potuto clonarne milioni in tempi rapidissimi e con spese risibili. Era stata modificata la primordiale reazione istintiva del “combatti o fuggi” facendo in modo che la creatura fosse costantemente in overdose di adrenalina e attaccasse per uccidere chiunque avesse davanti: una scheggia impazzita da liberare nella zona calda e lasciar scatenare finché avesse fatto terra bruciata tutto intorno. Era stato anche impiantato un chip esplosivo nel cuore, probabilmente per sbarazzarsene a missione ultimata. Così dunque stavano le cose. Finito di esaminare il dossier la pistola laser, mia unica difesa, mi sembrava ben poca cosa. D'improvviso un lieve sbuffo dietro di me.

VITA DA TESTER

Nel buio della stanza si accorse del display che lampeggiava. Mise in pausa e lasciò cadere il joypad sul letto. Sul plasma da cinquanta pollici campeggiava un'accecante esplosione e tutto intorno, congelati, soldati coi mitra spianati e carri armati fra macerie fumanti. Vide che era Marco, ci pensò un attimo e poi rifiutò la chiamata. Riprese a battere frenetico i pulsanti e la camera risuonò del fragore della bombe e del sibilo dei proiettili. Un countdown sinistramente rosso lo avvisò che lo stavano colpendo, ma non capiva da dove. Lanciò due granate a casaccio. Assieme ad un cuore sanguinante pulsava il numero 5 a caratteri cubitali. Premette di nuovo la P per pausa e con la coda dell'occhio sbirciò i due foglietti stropicciati che teneva sulle ginocchia. Gli sviluppatori gli avevano dato i codici di tutti i trucchi. Si alzò e fece qualche passo accanto al letto, per sgranchirsi le gambe. La radiosveglia sul comò segnava le otto e mezza: giocava da sei ore. Agitò le mani e ruotò un po' i polsi. Percorse flemmatico i pochi metri che lo separavano dal frigorifero e tornò con l'ennesima Red Bull. A razzo schiacciò P e poi T (per i trucchi), quindi digitò HEALTH: era salvo e di nuovo con l'energia vitale al massimo. Il cecchino che lo stava massacrando era appostato su un tetto alla sua sinistra: un razzo RPG e passi la paura. Seppur a malincuore fu costretto a rimettere in pausa: sul monitor del PC di fianco a quello dell' X-Box l'icona verde con la spunta bianca si era animata di un nuovo messaggio. Il computer fisso era acceso ventiquattr'ore su ventiquattro, con aperti Gmail, Facebook, Windows Live e Skype appunto. Era ancora Marco, questa volta non poteva evitarlo.
Ciao vecchio, ci vediamo al circolo alle 22,30 poi andiamo a fare un giro al mare. C'è anche Sara...”, e qui aveva aggiunto una faccina che sghignazza beffarda.
No, non vengo, devo finire di testare un gioco”
Erotico?” (due faccine beffarde più una che si rotola dalle risate)
Uno sparatutto. Non posso dirti il titolo, ancora deve uscire...”
Figo?”
Bah, roba già vista più o meno”
Allora non esci? Vieni dai! Sara ha chiesto di te...” (tre cuoricini lampeggianti)
No, non posso, alla prossima... ciao”
Gli era venuta un po' di fame, era più tardi del solito. Ennesima visita al frigo e si ritrovò seduto sul letto con un culo di salame in una mano e una rosetta sbocconcellata nell'altra. Quando aveva accettato quel lavoro non avrebbe certo immaginato che sarebbe finita così. Erano già passati cinque anni, volati. Non avrebbe mai pensato che i videogiochi avrebbero potuto annoiarlo. Se lo figurava come un lavoro da sogno, tipo fare il pilota, l'attore, il calciatore, l'astronauta.
Mosse stancamente lo sguardo per la stanza, sulla carta da parati lacera e scolorita, sulle pile di libri e di fogli accatastati a terra, sulla moquette arancione piena di macchie e disseminata di vecchi cartoni per la pizza. La penombra, giallognola per la luce della vecchia abat-jour, era densa di fumo e polvere. Mandò giù l'ultimo boccone di salame e scolò la Red Bull facendo tintinnare la lattina vuota. Riprese stancamente il joypad e continuò a giocare con un'aria insolitamente assente.

L'indomani mattina si aggirava tra gli scaffali e le mensole lunghissime del negozio. Ci era cresciuto lì dentro, per così dire. Da lì veniva il Commodore 16 che gli avevano regalato per la comunione, quindi era stata la volta del 64 e poi ancora del 128, comprese le centinaia di cassette dei rispettivi giochi. Da qualche mese però aveva un'altra ragione per andarci molto spesso.
Fingendo di interessarsi alla giapponesina dai capelli blu che ammiccava dalla custodia di un titolo manga, sbirciava Sara alla cassa che si annoiava e si arricciava al dito i lunghi capelli biondi, sbadigliando di tanto in tanto. Il negozio era deserto. Oltre a lui c'era solo un vecchietto col nipotino pestifero che da mezz'ora lo supplicava frignando di comprargli il nuovo Fifa 2012.
Nostalgia dei vecchi tempi?”, gli sorrise Sara osservando curiosa il dvd sul nastro trasportatore.
Ho un vecchio Pentium 4 che uso solo per il Mame, ci faccio girare tutti i giochi dei cabinati, li ho tutti, dai primi anni settanta”, bisbigliò in fretta Andrea senza staccare gli occhi dal gigantesco Pac-Man che scorreva verso il registratore di cassa.
Non sei venuto ieri sera...”, fece Sara con tono malizioso.
... No, dovevo lavorare, devo testare due videogiochi per fine mese e sono molto indietro”
Ah... ho capito”, sussurrò Sara facendo cadere la conversazione.
Si divertiva molto a metterlo in imbarazzo. Le piaceva la sua timidezza.
Quattordici e novanta”, esclamò qualche attimo dopo con voce squillante.
Andrea armeggiò nel borsellino, posando gli occhi scuri su quelli azzurri di lei.
Abbiamo mangiato una pizza al Magic e poi siamo andati a fare un giro a Riccione. Ci siamo divertiti, c'eravamo tutti, potevi venire...”, gli sorrise Sara.
... Avevo da fare... i giochi...”, farfugliò consegnandole le due banconote.
Era sempre un'emozione fortissima quando le sfiorava la mano e Andrea continuava a guardare basso battendo nervosamente il piede sinistro.
Vabbeh, allora ciao, alla prossima”, disse Sara in tono sdolcinato.
Andrea inforcò la porta agitatissimo e girò l'angolo quasi di corsa, non accorgendosi affatto di Sara che da dietro la vetrata si sbracciava indicandogli il videogioco e il resto.

Il vicolo di fronte era sferzato dalla pioggia battente. Folate improvvise di vento sbattevano scrosci d'acqua sulle vetrate dell'ingresso. Era un sabato sera perfetto per il cinema e tantissime coppiette prendevano d'assalto le biglietterie. Andrea come al solito era stato previdente, non si era ridotto all'ultimo minuto, e aspettava in disparte coi due biglietti pronti nel portafoglio. Sarebbe dovuta arrivare già da un quarto d'ora, iniziava ad essere un po' nervoso. Comunque mancavano ancora dieci minuti all'inizio del film, senza contare tutta la pubblicità. Le donne poi si sa che si fanno sempre un po' attendere, non era il caso di essere troppo pignoli.
Cinque minuti. Si aggirava nervosamente nell'ingresso, a piccoli passi. Scrutava tra la folla alla ricerca di una chioma bionda, di tanto in tanto buttava un occhio alle scale che salivano al piano di sopra, dove c'erano le sei sale. Un clacson lo fece trasalire e gli sembrò che qualcuno lo stesse salutando da una 147 rossa che sfrecciava di fuori. Calciò una lattina di Coca e si mise a sedere sulla panchina di fianco al distributore di bibite e snack. La sala era quasi deserta. Gli ultimi ritardatari si affrettavano alla spicciolata su per le scale, coi biglietti in vista per farseli strappare. Spezzoni di battute e stralci di musiche giungevano flebili dal piano superiore. L'ultima cassiera rimasta gli rivolse un mezzo sorriso spento prima di abbassare la saracinesca e chiudere le luci.

Irruppe nella sua stanza spalancando la porta con un calcio. Cacciò un urlo, scaraventò contro il muro il borsello e rovesciò a terra tutti i libri della mensola più bassa, rischiando di mandare in frantumi il monitor del PC. Si sedette sul letto e rimase al buio, coi due biglietti in mano. Fece un lungo sospiro, strappò i biglietti e sfiorò il mouse. Lo schermo si riattivò. Aveva lasciata aperta una sessione di The Sims, l'altro videogioco che gli avevano dato da provare. Era una festa in piscina, con omini e donnine di pixel che chiacchieravano e scherzavano tra drink e stuzzichini. In primo piano una bionda in bikini con accanto la scritta “Allora ci vediamo al cinema alle dieci. A stasera!”
Andrea aprì la chat e digitò: “Perché mi hai dato buca, Sara??”
L'avatar continuava tranquillamente a fissarlo coi grandi occhi azzurri.
Vaffanculo! Stronza!”, scrisse Andrea in maiuscolo, battendo i pugni così forte sulla scrivania che fece sussultare la tastiera.

Lo gnomo si stava scagliando contro il drago a tre teste brandendo la lunga ascia, quando il possente guerriero vichingo dalle lunghissime trecce bionde intimò lo stop, congelando la battaglia incipiente.
Oh, ieri ho visto Andrea al cinema”, disse Alex togliendosi cuffie e microfono, rivolto alla Gilda.
Con chi era?”, chiese Sara con un pizzico di apprensione.
Sei gelosa?”, la canzonò Alex.
Così per sapere...”, si schermì Sara, “è un sacco che non lo vedo. Non passa nemmeno più al negozio. Con voi si è fatto sentire ultimamente?”
I cinque scossero la testa all'unisono, scambiandosi occhiate perplesse.
Era da solo”, continuò Alex, “dalla faccia non mi ha riconosciuto... mi pareva un po'... boh... tonto... stranito...”
Come sempre”, scherzarono in coro Marco e Silvia stretti nella poltrona alla sua destra.
Sara sorrise, anche se un po' tristemente.
Ho provato a chiamarlo tre volte oggi, ma mi ha sempre chiuso il telefono. Gli ho mandato un sms per chiedere se qualcosa non andava ma ancora non ha risposto”, fece Sara sporgendosi a prendere una manciata di popcorn dal tavolino in vetro.
Lunedì dovevamo andare al poligono, ma a casa non l'ho trovato”, disse Marco, “credevo di beccarlo qui stasera e invece... tu Stefy l'hai visto?”
Stefano si dondolava sulla sedia. Era il più eccentrico della squadra, appollaiato su quel trabiccolo di vimini. Nessuno capiva come potesse non starci scomodo, ma ogni volta che si vedevano a casa di Alex per giocare, tutti i giovedì sera, non voleva mai stare sul divano. Conosceva Andrea meglio di tutti, erano sempre andati a scuola insieme, dalle elementari fino alla laurea in Ingegneria Informatica a Bologna. Si può dire che fosse il suo migliore amico.
No, anche io è un pezzo che non lo sento. Doveva farmi vedere un dvd di retrogames che aveva comprato ma quella sera poi non mi ha più chiamato. Il giorno dopo ho trovato un messaggio su Facebook che diceva che stava poco bene, aveva mal di testa e non gli andava di giocare col computer. Non sono stato a stressarlo più di tanto, col lavoro che fa poi... so che ha molto da fare, deve consegnare due relazioni ed è parecchio indietro, mi diceva...”
Vabbeh dai, continuiamo!”, esclamò Alex sbloccando la partita. Il mago di Silvia lanciò una gigantesca palla di fuoco contro il mostro, tutti si reinfilarono in fretta le cuffie e ripresero ad armeggiare forsennatamente sui controller.

Coi gomiti appoggiati sulla scrivania e il mento fra le mani Andrea fissava lo schermo con un ghigno beffardo. Aveva spostato tutti i Sims in piscina e aveva rimosso tutte le scalette. Da più di un'ora si compiaceva di quella prigione, di quella forzata immobilità. Come quando a Rockman riusciva a imprigionare i cattivi rosa fra i massi. In particolare fissava la bionda traditrice, in mezzo al marasma di capigliature.
Divertiti pure, in piscina, con tutti i tuoi amici, stronza! Fai con comodo, hai un'eternità!”, bisbigliò facendo scorrere la sedia e accendendo la console con un guizzo del braccio. Mentre Sara e i suoi amichetti se la spassavano in piscina lui doveva continuare a lavorare sullo sparatutto. La volta scorsa si era liberato di quel fastidioso cecchino e aveva completato il livello raggiungendo l'elicottero che lo attendeva al punto di raccolta. Ora assieme a due commilitoni comandati dalla CPU si librava in volo sulle macerie fumanti e atterrava su una portaerei al largo di un'isola.
Salvò subito all'inizio del nuovo livello e svuotò il caricatore sui compagni che lo precedevano. Sentì un brivido perverso nel vederli accasciarsi ai suoi piedi. Game Over, aveva perso. Non poteva ucciderli. In quella missione non era tollerato fuoco amico. Ricominciò la partita. Cambiò arma: ripose il mitra e prese il coltello. Si avventò sugli alleati e li finì con svariate pugnalate alla schiena. Ancora da capo. Dopo qualche passo lanciò una granata uccidendo i soliti due e facendosi saltare la testa. Di nuovo Game over; Vuoi giocare ancora?: SI/NO... SI.
Fiigooo!”, sussurrava sorridendo. Sempre la stessa storia. Uccideva i compagni provando tutto l'arsenale a disposizione o si buttava in mare e annegava. La cosa sembrava non stancarlo mai e divertirlo ogni volta. Andò avanti così per un'ora buona, finché dall'altro monitor qualcuno non lo chiamò ancora su Skype.
Marco... che cacchio vuole adesso?”, bofonchiò con disprezzo raccogliendo un trancio di pizza da un cartone sulla moquette.
Accanto all'icona di Super Mario la scritta: “Vieni domani al poligono? E' un pezzo che non ci si vede... hanno messo le nuove linee di tiro a cento metri, che figata! Dai, ti sfido!”
Fanculo”, sbottò Andrea chiudendo l'applicazione e mettendo a tutto schermo il gioco dei Sims, con la piscina tristemente gremita di gente e nessun'altra attività.
Ciao ciao Marco”, salutò Andrea puntando col dito una testa mora nell'angolo della piscina.
Bene, adesso torniamo alla guerra, se no non faccio in tempo a finirlo”. Si alzò di scatto, andò all'armadio e prese dalla custodia la sua carabina calibro ventidue. Inserì il caricatore da cinque colpi e spinse l'otturatore a fine corsa. Stava per aprire la porta quando il campanello lo colse in contropiede.
Sara lo guardava perplessa. “Il poligono non è chiuso a quest'ora?”
Andrea non capiva. Seguì lo sguardo di lei sull'arma. Balbettò qualcosa.
Dove vai? Disturbo per caso?”, gli chiese esitante.
Andrea sgranò gli occhi. Guardava il fucile che reggeva nella mano destra come fosse una cosa sconosciuta.
Ehi... ci sei?”, scherzò Sara agitandogli una mano davanti al viso.
Devo finire il videogioco... stavo andando a finire...”, sussurrò Andrea. Gli sembrava che quelle parole non venissero da lui. Come un lampo colse un bagliore di paura negli occhi di Sara e di colpo si sentì svuotato. Poi fu tutto chiaro.
Ciao, scusa, entra pure”, disse Andrea con voce squillante, “stavo pulendo la carabina. E' molto che non la uso, Marco mi ha chiesto se vado al poligono e così la pulivo. Vieni vieni, prego!”
Fece strada dal cortissimo corridoio fino in camera. Un po' imbarazzato accese la luce.
Ehm... siediti sul letto... fa come fossi a casa tua”, disse sforzandosi di nascondere l'imbarazzo.
Sara si destreggiò a fatica tra i libri, le risme di fogli e i pezzi smangiucchiati di pizza.
Casa mia è un po' meno in disordine, per fortuna!”, sorrise Sara, “se riduco la mia stanza così mia madre mi strangola!”
Scusa... è un disastro... sono un po' incasinato ultimamente...”, disse Andrea sedendosi accanto a lei.
Molto lavoro?”
Esatto”, fece Andrea, “devo testare due videogiochi per la fine del mese e sono ancora in alto mare... non so se ce la faccio...”
Quali sono?”, chiese Sara
Eccoli”, disse Andrea indicando i due monitor sulla scrivania.
Quelli di guerra non mi piacciono! Quest'altro cos'è?”
E' il nuovo The Sims
C'è una riunione in piscina?”, chiese Sara scoppiando a ridere, “che cacchio combini??”
No...”, abbozzò Andrea, “faccio delle prove, sai... devo scoprire possibili bug, devo ricreare anche situazioni assurde...”
Sì, ho visto!”, fece Sara. “Ah... ha detto Alex che ieri ti ha sgamato al cinema. E' passato con la macchina, ti ha salutato, ma tu non l'hai riconosciuto. Cosa andavi a vedere?”
Si è sbagliato, non ero io. Questa settimana sono stato sempre a casa a giocare... a lavorare cioè...”, sorrise Andrea.
Hai poi giocato col dvd che hai preso da me quella volta?”, chiese Sara.
No, ancora non ho avuto tempo...”
Per poco non lo lasciavi in negozio, ti ricordi?”, ammiccò la ragazza.
Si, che cretino...”, sorrise Andrea.
Capita dai... ah... visto che non eri tu... ti andrebbe di andare al cinema sabato?”, buttò lì Sara
A vedere cosa?”
Pensavo a Biancaneve e il cacciatore ma se no vediamo lì per lì, se non ti piace...”
No, va bene. Ok, allora, vada per sabato!”, disse Andrea.

Doveva rimettersi all'opera. La pausa era finita. Il tempo stringeva, mancavano due giorni. Aveva finito la relazione su The Sims, rimaneva Call of Duty. Si alzò di scatto dal letto e prese la carabina dall'armadio. Uscì di casa. Il cielo era plumbeo, la strada deserta all'imbrunire. Il suo vicino, uno scapolo sulla cinquantina basso e tracagnotto, attraversava il giardino col barboncino al guinzaglio per il solito giretto serale.
Ciao Andrea”, lo apostrofò passandogli accanto sul marciapiede. Il giovane imbracciò il fucile senza profferire parola e lo puntò sulla faccia dell'uomo, mentre il cagnolino faceva un chiasso del diavolo. Si svegliò di soprassalto, per poco non cadde dalla sdraio.
Ehi... tutto bene?... Hai avuto un incubo...”, Sara gli sorrideva stesa su un lettino. Il bikini fucsia esaltava la splendida carnagione dorata, era davvero sensuale.
Andrea guardava ansimando il placido mare turchino. Si abbandonò all'indietro sulla sdraio, chiuse gli occhi e si lasciò investire dal sole.
Sara gli passò teneramente una mano fra i capelli. “...Passato?”, gli chiese.
Ho sognato che sparavo al mio vicino... ero andato fuori di testa”, fece Andrea.
Per quel videogioco”, pensò. E si ricordò di quella volta. Di come forse l'avesse salvato proprio Sara. Il cielo era terso, un gabbiano garrì passando sulle loro teste.
Hai fatto bene, è davvero antipatico quel ciccione! Tutte le volte che venivo da te non salutava mai, mi guardava sempre storto. E quel suo... topo-pecora ringhiava sempre quando provavo a accarezzarlo... è proprio vero... i padroni assomigliano ai loro cani!”, sorrise Sara.
Era invidioso che avessi una ragazza così bella!”, esclamò Andrea scoccandole un bacio sulla guancia. Sara rise forte.
Hai avuto davvero una splendida idea, sai!”, disse Andrea, “mi ci voleva proprio questa vacanza. Avevo bisogno di staccare. Ero messo male. Per fortuna alla fine sono riuscito a finire il lavoro su quei due giochi, temevo proprio di non farcela!”
Si, ma adesso non ti voglio più sentir parlare di quella roba. Adesso solo due settimane di completo relax. Solo io, te e il mare. Basta computer, console, internet, cellulare e cazzate simili... basta!”, disse Sara buttandogli le braccia al collo.
Eggià!”, sorrise Andrea baciandola leggero sulle labbra. “Basta!”, prese il cellulare dallo zaino ai piedi della sdraio e lo scaraventò all'orizzonte. Un piccolissimo sbuffo bianco increspò le onde calmissime.
E dai, ma sei scemo!”, rise Sara dandogli un buffetto sulla fronte.
Si, sono fuori di testa, lo sai...”, urlò prendendola in braccio con foga e precipitandosi a riva sulla sabbia cocente.

L'UOMO CHE CAMMINAVA ALL'INDIETRO

La testa d'aquila bucava sghignazzante le nubi vaporose, calzando il logoro berretto da aviatore e reggendo nel becco l'elica gialla e rossa. Dietro il piccolo parabrezza il vecchio esploratore si godeva il vento in faccia, coi lunghi baffi che svolazzavano all'impazzata. Ripensava a quella storia e sognava di chiudere in bellezza la sua carriera. Il cielo era terso e il biplano vibrava vigorosamente, sobbalzando di tanto in tanto. Gliene aveva parlato un indigeno delle isole Andamane, una notte durante la stagione secca, mentre aspettavano che il varano si cuocesse sullo spiedo. Lì per lì non ci aveva dato peso, finché non aveva sognato di camminare all'indietro vestito come un re, con una cascata di gioielli che lo andavano ricoprendo dai piedi in su.
Eccolo! L'atollo si stagliava come una goccia grigia nell'oceano turchino. Sembrava un otto disteso orizzontalmente, macchiato qua e là di lussureggiante vegetazione e cristallini specchi d'acqua. Lo vide mentre planava e atterrò fortunosamente su una radura ad una cinquantina di metri. Gli si avvicinò agitando lentamente le braccia. Il bambino continuava a camminare in cerchio all'indietro, senza prestargli la minima attenzione. Man mano che si avvicinava notava i tatuaggi bianchi e farinosi sulla pelle d'ebano, gli occhi scurissimi e profondi, i capelli ricci e crespi.
Ciao”, l'esploratore sorridendo gli posò una mano sulla spalla.
Di colpo il ragazzino si fermò e lo fissò esterrefatto e terrorizzato. Il volto di fanciullo si trasfigurò in quello di un centenario decrepito. Si levò un vento terribile, che divenne subito tempesta. La terra iniziò a tremare sempre più forte. Un muro gigantesco di polvere e fuoco avanzava dall'orizzonte divorando ogni cosa.

L'UNICORNO CHE CACCIAVA ALIENI

Ci siamo, generale Xior”, esclamò il comandante alla plancia di comando. Sul monitor olografico comparve un pianeta denominato Ippos-314 alpha.
E' stata proprio una bella idea creare questo punto di rifornimento e ristoro. Fa molto comodo tra una missione e l'altra!”, si compiacque il generale. La navicella sfrecciò tra i due anelli color arcobaleno e atterrò nell'apposita piazzola della stazione a fissione nucleare. Due delle quattro lune erano appena tramontate. La superficie era un unico tappeto erboso dove pascolavano milioni di cavalli allo stato brado. Disseminati qua e là piramidi di fieno e laghetti ottagonali. Appena sbarcati Xior afferrò un purosangue per una zampa di dietro e lo ingoiò in un sol boccone, sputando coda e criniera.
Abbiamo poco tempo, tra 4 freon dobbiamo andare su Auris-3π a fare un bel carico d'oro. Poi rientriamo e scarichiamo quelle schiave. Ci frutteranno parecchio. Ricarica i reattori e mangia qualcosa”.
Le tre teste del comandante annuirono all'unisono.
Non così in fretta, farabutti!”, tuonò un gigantesco unicorno bianco balzando fuori da uno dei laghetti.
Mi spiace scombinare i vostri piani, ma siete voi che frutterete a me parecchia grana!”
E' Laisim il cacciatore di taglie, uccidilo Vagor!”, gridò Xior. Il comandante non fece in tempo ad estrarre la pistola al plasma. Laisim gli scagliò il corno nell'occhio della testa centrale e il colosso blu si accasciò a terra in una pozza verdognola.
Intanto un altro corno era ricresciuto sulla fronte del bianco destriero.
Ottimo posto per un'imboscata, non trovi Xior?”, esclamò Laisim. Il generale sparò un raggio che lo mancò di poco, prima di stramazzare al suolo trafitto anch'egli dal corno.

L'UNICO CANE CHE ABBAIAVA

Era appena spuntato il sole nello sperduto villaggio della Cordigliera Andina, ma la campagna pullulava già di camion, furgoni e automobili scassate. Tutte le maggiori troupe televisive e i freelance più scapestrati erano accorsi in cerca del Pulitzer. Una folla di curiosi si era riversata dalle baracche negli orti antistanti, qualche capra fuggiva infastidita. Mano a mano le star facevano capolino qua e là. Chi correndo, chi trascinandosi, andavano formando una moltitudine dalle taglie e dai colori più disparati: ci potevi scovare un San Bernardo in miniatura, un volpino travestito da Dobermann, un Dalmata più simile ad una mucca pezzata o l'immancabile Labrador della pubblicità con un che di tarocco. La foresta di microfoni, antenne e macchine fotografiche fremeva per individuare quale fosse tra loro. La giornata trascorse nel silenzio. I cani non avevano mai fiatato. Un cameraman bofonchiava sottovoce. Volò qualche mozzicone e qualche starnuto. La tensione era palpabile. D'un tratto uno spinone acciambellato sotto un ontano scattò in piedi e abbaiò candidamente, gettando la folla nello scompiglio. Tutti gli occhi e le orecchie, umani ed elettronici, scandagliavano frenetici i paraggi. Sopra le loro teste comparve un ovale nero vorticante. Un sasso ci volò dentro e ne fu inghiottito, risuonarono uno schiaffo e un acuto frignare. Finalmente il portale vomitò qualcosa. Tutti si accalcarono attorno a quella che sembrava una grossa pietra grigia levigata che iniziò a scuotersi e a fremere. Due puntini gialli si accesero ad un'estremità, sbucarono tentacoli e una lunga coda biforcuta. La creatura dispiegò due larghe ali e librandosi verso la luna piena lanciò un grido lancinante, smarrita in un mondo che non era il suo.

IL MACELLAIO

L'ispettore Nocito non aveva mai visto nulla di simile. Si guardò intorno con circospezione, attento ad ogni minimo rumore, cercando di mantenere la calma. Il posto era quello segnalatogli via radio. La luna fece per un attimo capolino tra i nuvoloni e il pallore rischiarò impietoso quell'aberrazione. Uno di loro sollevò il muso: grondava sangue e interiora. L'indice tremò sul grilletto. Le mascelle della bestia si serrarono e gli occhi scintillarono d'impeto. Dovette fare appello a tutte le sue forze per non vomitare. Il maremmano spiccò un balzo verso di lui e cominciò a correre forsennatamente sputacchiando saliva e poltiglia. Per lo spavento incespicò all'indietro e cadde a sedere. Il vicolo risuonò di due frastornanti boati. L'ispettore si scrollò di dosso la carcassa e si rimise in piedi, dolorante. Sentiva le mani luride e viscide, alla luce del lampione si scoprì imbrattato di sangue, peli e bava. Gli altri due cani scomparvero ringhiando dietro l'angolo. Nocito avanzò di nuovo verso la montagnola in ombra. Solo un cane non si era mosso. Nemmeno gli spari avevano placato la sua brama. “Viaaaaa!!!!!” gridò fuori di sé. Sentiva il lento inesorabile biascichio mentre un tanfo insopportabile di colpo lo fece vacillare. Esplose un colpo in aria. La sagoma scura continuò imperterrita. Ormai era abbastanza vicino. “Fermo dove sei! Mani in alto”, intimò. Voleva urlarlo a squarciagola ma la voce uscì strozzata. Dal cadavere a terra emerse un energumeno tetro e spento, solo gli occhi erano vivi, azzurri e gelidi. Per quanto fosse vicino non riusciva a tenerlo sotto tiro: la tacca di mira diventava sfocata, era come guardare l'asfalto tremulo arroventato dal sole estivo. Gli parve di cogliere il bagliore di una fibbia. L'uomo lasciò cadere a terra qualcosa. Nocito avanzò ancora di pochissimo, la vista annebbiata e le gambe atrofizzate. Era un braccio, o almeno ciò che ne restava; arrivava al gomito, finiva con l'osso e i legamenti sfrangiati. Nocito era ubriacato da un'immobilità surreale e disumana. Quell'essere sbloccò la situazione sparendo dietro l'angolo, come i cani poco prima. L'ispettore non ebbe la forza di gridare o di sparare: si sentiva svuotato e voleva solo farsi inghiottire dal silenzio e dalla notte. Il puzzo però lo riscosse dall'apatia e di colpo si ricordò di essere uno sbirro: c'era un cadavere, c'era un assassino da prendere! Un mostro per di più, un cannibale a quanto pareva. Dei rinforzi richiesti ancora nessuna traccia. Un lieve sospetto cominciò a serpeggiare ma lo scacciò e, cosa per lui insolita, si affidò a quella tecnologia che non gli era per nulla congeniale. Nocito era un dinosauro della vecchia scuola, rispettato e temuto da tutti i colleghi. Non ce n'erano più molti come lui in servizio, di investigatori. Si era fatto le ossa ben prima del DNA, del luminol o dell'AFIS e guardava con malcelata diffidenza al nuovo che avanzava. Era troppo affezionato al suo blocchetto e alla sua stilografica per sostituirli con un palmare e se doveva pigiare su una tastiera per redigere un verbale ci metteva una vita. Questa volta tuttavia ebbe un guizzo e sentì che lo strano aggeggio poteva essergli utile: sul mezzo braccio masticato spiccavano nettissime quattro impronte insanguinate. Scattò una foto col nuovo smartphone in dotazione e dopo pochi semplici passi il database emise il responso. Non ne fu stupito, viste le circostanze non poteva che essere lui: il macellaio; ricercato in quattro stati, autore di nove omicidi e sospettato di altrettante sparizioni. “Ormai sono troppo vecchio e troppo grasso per queste cose...”, sbuffò Nocito prima di gettarsi all'inseguimento.


I colori e le forme galleggiavano in nuvole grigie e rossastre. Poco a poco le cose prendevano forma. Pochi battiti di palpebre e gli si accese un fortissimo mal di testa. Una fila di neon copriva il soffitto, doveva distogliere lo sguardo per non restarne abbagliato ed acuire ulteriormente il mal di testa. Sentiva una tempia pulsare e una sensazione calda dove esplodeva il mal di testa. Istintivamente cercò di toccarsi ma si accorse di essere immobilizzato. Ormai riusciva quasi a mettere a fuoco del tutto. Sembrava una camera d'ospedale: plastiche bianche asettiche e tavoli e attrezzature in metallo. Aveva le mani costrette dietro la schiena. Si chinò ad osservarsi i piedi: le caviglie erano strette con dei fili elettrici alle gambe della sedia. Una goccia rossa piovve tra i mocassini neri lucidi. La vista era tornata normale ora ma il mal di testa si era risvegliato con lui, dolorosamente vigile e pulsante. Si guardò intorno. Nella stanza, di circa dieci metri quadrati, c'erano un letto sfatto con accanto l'impalcatura di una flebo ancora mezza penzolante e tre tavoli da autopsie disposti a ferro di cavallo davanti a lui. Sparse qua e là altre quattro sedie identiche a quella a cui era legato. Non capiva se fosse ammanettato o cos'altro; fece forza dapprima gradualmente per saggiare la resistenza, poi diede quattro strattoni decisi: niente di fatto. Una fitta alla testa ed ebbe un capogiro; socchiuse gli occhi per riposarsi un attimo. Sui tre tavoli tre lenzuoli bianchi rigonfi. Quasi in sordina due uomini entrarono nella stanza. Nonostante il primo indossasse una divisa da poliziotto Nocito notò solamente l'altro, a causa della mole spaventosa. Era alto quasi due metri, scarponcini da trekking marrone scuro e una salopette lorda di sangue. La folta e incolta barba fulva era sozza di brandelli di carne, una profonda cicatrice partiva dalla guancia destra fino a lambire più sbiaditamente una fessura dall'iride azzurro, vuota e inespressiva. Il macellaio. Non era mai stato così vicino. Non era tanto la statura a far paura, quanto la totale assenza di umanità che emanava dalla sua figura. “Salve ispettore, ben svegliato”, sogghignò l'uomo in uniforme facendo roteare giocosamente fra le mani una sbarra di ferro. Nocito lo conosceva bene ma non si stupì più di tanto.
“Baldini...”, sorrise amaramente, “ecco perché i rinforzi non arrivavano mai...”
“Mi spiace ispettore ma ti stavi avvicinando troppo”
“Ecco perché il macellaio era sempre un passo avanti a noi... eh bravo Baldini... non mi sei mai piaciuto ma non credevo fossi anche tu uno psicopatico, me l'hai fatta...”
“Ah ma io non sono affatto uno psicopatico, come te e come tutti perseguo solamente un mio fine, ho un piano da portare a termine.”
Mentre parlava Nocito non riusciva a distogliere lo sguardo dal macellaio. Se ne stava lì in piedi, immobile, impassibile, quasi assente; quasi non si rendesse conto di dove si trovasse, di cosa facesse o peggio di cosa avesse fatto.
“Vuoi dare uno sguardo al tuo futuro prossimo?”, Baldini afferrò un lembo del lenzuolo dal tavolo centrale, proprio di fronte a Nocito. La mannaia era conficcata nel cranio. La lama pesante aveva maciullato quasi tutta la parte destra del volto, il manico toccava il pianale. I radi capelli erano impiastricciati di sangue e materia cerebrale, impossibile dire di che colore fossero. Una palpebra semichiusa faceva intravvedere un'iride grigiastra, la bocca era lievemente aperta. L'orecchio sinistro era stato strappato e penzolava da un lungo lembo di pelle. Gambe e braccia erano staccate dal busto e appoggiate alla rinfusa sul gelido pianale: ecco spiegato il rigonfiamento innaturale. La pelle cadente e grinzosa era stata strappata in vaste aree delle cosce, dell'addome e del petto: evidentemente quella belva non disdegnava di cibarsi di esemplari anziani. Mani e piedi erano accumulati nell'angolo accanto alla testa, anch'essa mozzata; le dita mancanti dovevano aver fatto da aperitivo.
“E questo sarebbe il piano tanto geniale?! Non crederai di farla franca... non ero il solo a sospettare che ci fosse una talpa alla centrale... non sono mica tutti una massa di idioti... ti saranno addosso prima di quanto immagini! E poi dove vuoi arrivare facendo il complice del macellaio, cosa speri di ottenere?”
“Complice io??!!... sei fuoristrada, hai capito male... io non sono affatto complice di questa bestia... al contrario... io sono l'eroe che lo ha ucciso... purtroppo sono arrivato tardi e non ho potuto evitare che ti facesse a pezzi...; ma non ti preoccupare, anche a te daranno una medaglia o una qualche onorificenza, ne sono sicuro... In un colpo solo mi sbarazzerò di questo grosso grasso schifoso idiota assassino...”, scandì le sillabe ad alta voce, “... e dell'ispettore più brillante del distretto... come vedi mi si prospetta una fulgidissima carriera!”
Nocito fissava incredulo il macellaio.
“Ah... tranquillo non può sentirmi... oltre che deficiente questo decerebrato...”, gongolava enfatizzando gli insulti, “... è pure sordo come una campana... figuriamoci poi, imbecille com'è, se sa leggere le labbra... Bene, direi che adesso è davvero giunto il momento.”
Baldini diede due colpetti con la spranga sulla spalla del macellaio indicandogli con cenni del capo prima il cadavere poi l'ispettore Nocito. Il gigante si mosse flemmatico, estrasse con qualche scricchiolio la mannaia dalla testa troncata e avanzò col solito sguardo assente. Nocito si dibatteva e gridava con tutte le forze ma i legacci non cedevano di una virgola. Il sorriso compiaciuto di Baldini era lo specchio della sua completa impotenza. Chiuse gli occhi rassegnato. Un fiotto lo investì in pieno viso, il manico della mannaia gli urtò il piede. Nella stanza all'improvviso fu l'apocalisse, un flusso continuo di proiettili, un assordante boato di spari. Baldini non fece in tempo ad estrarre la pistola, quattro colpi gli trapassarono il petto; lentamente si accasciò accanto al cumulo di frattaglie che un attimo prima era il volto del macellaio.
“Come mi hai trovato?” domandò Nocito gettando un'occhiata allo smartphone frantumato sul pavimento.
“Grazie al localizzatore GPS del telefono... questi in dotazione alle Forze dell'Ordine ne hanno tutti uno... e funziona anche se il telefono è spento o rotto, come in questo caso...”, proseguì Elisa notando la perplessità dell'ispettore, “sapevo che eri in servizio... non rispondevi mai e mi sono insospettita...”
“Salvato da una donna e da queste nuove diavolerie elettroniche... questo è il colmo!”, mormorò Nocito mentre Elisa lo liberava accovacciata ai suoi piedi, i vaporosi capelli biondi e la scollatura prepotente nonostante l'uniforme.
“Ben fatto agente Bianchi! Le prometto che non la prenderò più in giro per come guida la volante o per la sua mira!”, la canzonò. Elisa si guardò un attimo attorno poi sorrise beffarda “Insomma... per cinque centri ho svuotato due caricatori... direi che non sono esattamente una tiratrice scelta...”. Nocito le sorrise e appoggiandosi a lei si diresse alla porta, ancora un po' stordito e indolenzito.

IL BLOCCO DELLO SCRITTORE

Pestò con violenza la leva del freno, il Monster bianco si intraversò stridendo e disegnò sull'asfalto polveroso una lunga virgola nera. Il possente bicilindrico borbottava al minimo. Tenendo gli occhi fissi davanti a sé cercò lentamente l'elsa della katana. Spense la moto e con circospezione stese il cavalletto. Sguainò la spada e mosse qualche passo. Un rivolo di vento gli scompigliò i lunghi capelli biondi e gli impolverò pesantemente gli stivali. Davanti a lui la strada finiva nel nulla. Era un bianco assoluto, come un telo o un muro che ostruisse l'orizzonte a perdita d'occhio. L'asfalto grigio coi tratteggi gialli, la fila di alberi ai lati della strada, il cielo terso e assolato: tutto confluiva e svaniva in quella terrificante immensità.

Era un'altra di quelle volte che non mi veniva niente. Niente, foglio bianco, tabula rasa. Mi accadeva sempre più spesso negli ultimi tempi. Il corso di scrittura creativa che avevo comprato col Corriere della Sera diceva che in questi casi buttare giù parole a casaccio, frasi senza senso, anche sgrammaticate, aiutava a rimettere in moto il turbine di idee. Da due ore buone però non facevo altro che arrivare a metà riga per poi cancellare tutto. E via da capo, sbadiglio dopo sbadiglio.

Guen si vestì senza accendere la luce, attenta a non svegliare Jim. Spalancò la finestra. Una brezzolina gentile gonfiò le tende e si insinuò sotto le lenzuola. Jim sbuffò appena e si girò su un fianco. Issata sul davanzale, la giovane vampira sorrise dolcemente al suo compagno addormentato. I suoi occhi nocciola scintillarono nella penombra, un istante prima che si tuffasse per venti metri con la sua Beretta in pugno.
Filava come il vento nel bosco di cipressi. Qualche solitario automobilista per un attimo credette di aver visto una ragazza in tuta di pelle nera che volava fra i rami più alti, nella luce argentea del plenilunio. Ma i chilometri ancora da fare erano ancora tanti e bastava la stanchezza a fargli compagnia per quei tornanti, senza che ci si mettessero pure le allucinazioni: il solitario automobilista abbandonò quindi in fretta quello stupido pensiero e tornò a concentrarsi sull'indicatore del carburante e sulla cartina stradale.

La mano a sorreggere il mento, fissavo avvilito ora le plastiche annerite del vecchio monitor, ora la nuova tastiera rossa pieghevole in gomma. Non era stata un grande acquisto: buffa e simpaticissima per carità, ma decisamente scomoda per scrivere. Anche questo non aiutava. Come non aiutava l'estate fuori dalla finestra, coi suoi trenta gradi e le grida dei bambini. E mi ritrovavo sempre a pensare a tutte le belle ragazze della spiaggia...

Tra il fitto della boscaglia si intravvedeva un tremulo barlume dietro i finestroni rotti. Guen interruppe di colpo la corsa e si appostò dietro un grosso tronco. Sapeva di trovarlo lì. Controllò che il caricatore fosse pieno. Un proiettile d'argento era in canna. Dalle assi di legno marce, divelte in più punti, poteva sbirciare dentro la baracca ma non coglieva nessun movimento. Di tanto in tanto una folata di vento più forte delle altre ululava fra le fronde e scuoteva il fil di ferro a cui era appesa la lampadina. Scattò fulminea e ruzzolò dentro con un gran fragore di vetri. Ben salda sulle gambe piroettò su se stessa con la pistola spianata, per controllare la stanza. Rimase esterrefatta, gli occhi spalancati. Intorno a lei solo bianco, avvolta da una sensazione di non luogo, intrappolata in un inquietante straniamento mai provato prima.

Timidamente batté la punta della katana contro quel muro candido e si accorse che era una specie di nebbia, la lama ci scompariva dentro. Si guardò intorno perplesso. Avvicinò prima l'indice, poi lentamente ci fece scomparire il braccio libero fino al gomito. Sospirò guardandosi le punte imbiancate degli stivali. La moto a pochi passi da lui, inerte in quella desolazione, sembrava intimargli un ultimatum. Il motore prese vita con un rombo cupo. Esitò qualche istante, poi staccò brutalmente la frizione, snocciolò tre marce a limitatore e la Ducati scodando scomparve assorbita dal nulla.

Chiuse gli occhi e sparando all'impazzata corse dritto davanti a lei quanto più poteva. L'otturatore rimase aperto, la beretta si bloccò. Sentì un calore conosciuto sul viso. Aprì gli occhi e si ritrovò in un grande parco con tanti giochi per bambini. Tra l'improvviso schiamazzo e il fuggi fuggi generale, mamme più o meno giovani strattonavano via in gran fretta i loro figli, gridando e lanciando sguardi terrorizzati alla pistola che Guen impugnava.

Adesso però era veramente troppo! Giocare va bene, ma che quei mocciosi dovessero urlare come se li squartassero...! Spazientito chiusi la finestra di open office e spalancai quella reale che dalla sala dava sul parco dietro casa. Una splendida ragazza mi fissava appoggiata al palo delle altalene. Un Monster mille sbucò impennando dall'incrociò in fondo alla strada e inchiodò accostando al marciapiede, proprio vicino al cartello con dei bambini stilizzati e zompettanti.
Guen... Guendalina...”, sussurrai dal terzo piano.
Un'occhiata al misterioso forestiero: la moto, la spada, i capelli... Riconobbi anche lui.
Guen lo osservava diffidente, lanciando rapide occhiate alla Beretta ormai scarica e al fodero che faceva capolino dietro le spalle larghe del motociclista. Sentivo i loro sguardi incalzanti su di me, cercavano risposte. Abbozzai un sorriso stentato e alzai incerto la mano destra in segno di saluto. “Venite su, la porta è qui sotto, vi apro al citofono”, dissi a voce alta sforzandomi di apparire allegro.
Un attimo dopo ero seduto sul divano con Guen e il mio nuovo killer. L'imbarazzo era palpabile, come lo sconcerto d'altronde. Il mio gatto stava acquattato sotto il tavolino, fissando i due ospiti con occhi terrorizzati.
E così tu sei Guendalina...”, dissi per rompere il ghiaccio.
Guen per gli amici!”, mi sorrise scoprendo i canini. Era davvero meravigliosa. Averla lì in carne ed ossa era un'emozione indescrivibile.
Come sai il mio nome?”, chiese pensierosa.
Sei bellissima... davvero...”, farfugliai senza volerlo.
Grazie”, sussurrò un po' sorpresa passandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
Sei l'eroina del mio racconto, quello intitolato 17...”, spiegai, “... ma come sei arrivata qui?”
Andavo ad uccidere un lupo mannaro...”
Che aveva tentato di far fuori te e Jim... vero?”, interruppi.
... Sì, esatto, ma come lo sai? Aspetta... aspetta... il tuo racconto...? io sarei... e Jim... lo conosci? Allora anche lui è...”, esclamò sempre più confusa.
Ero entrata nel suo nascondiglio e di colpo era tutto bianco”, riprese. “Ho avuto molta paura e ho corso, correvo e sparavo alla cieca. Poi sono finita nel parco qui sotto. E ti ho visto. Mi sembra di conoscerti...”
E tu invece... ehm...”, chiesi al centauro samurai accorgendomi di non avergli ancora dato un nome.
Non ricordo come mi chiamo, non lo so, boh...”, ringhiò spaventandomi un pochino. “Dovevo eliminare un bersaglio ma la strada all'improvviso è finita... non c'era più niente, era tutto bianco. Mi ci sono lanciato dentro con la moto e sono finito qui.” “Eri alla finestra e ho avuto un fortissimo dejà-vu”, aggiunse quasi scusandosi.
Tu invece chi sei?”, mi domandò... niente da fare, ancora non mi sblocco... rimarrà il motociclista per ora...
Eh...”, esitai, “io mi chiamo Salvatore, piacere di conoscervi, ehm... di incontrarvi...!”
E che fai di bello, Salva?”, fece Guen.
Cercavo di scrivere...”, dissi scherzosamente pensando allo schermo vuoto di là in camera mia.
Piuttosto...”, mi alzai in piedi con enfasi, “scusate, sono un cafone, non vi ho neanche offerto nulla, volete qualcosa da bere?”

IL NAUFRAGO FELICE

Schizzò a sedere spaventato e urtò sbadatamente il suo martini. Si passò una mano sulla fronte ma fu subito rapito dal bikini bianco e dagli occhi verdi. I pantaloncini erano zuppi. Per fortuna il bicchiere rotolava ancora tutto intero sul tavolino in legno. Gli si fece incontro frettolosamente, troppo bella e troppo giovane, gesticolando sbarazzina.
“Ops, mi scusi signore, non volevo...”
“Non fa nulla signorina”, abbozzò sorridendo, “anzi grazie, se continuavo a dormire qui mi ustionavo!”.
La sirenetta lo fulminò con un sorriso disarmante, salutò con la mano e si rituffò a bomba nella piscina investendolo di nuovo con una secchiata d'acqua e scomparendo tra le risate e le grida.
Si alzò, mosse qualche passo e gettò lo sguardo oltre il parapetto, assaporando in raccoglimento l'azzurro del mare a perdita d'occhio e la spessa spuma bianca della scia. Riconoscendo nel groviglio di costumi bracciali e palloni i lunghi capelli castani e lo sguardo ammaliante e felino della sua attentatrice, non poté fare a meno di alzare gli occhi al cielo e sorridere dietro i ray-ban scuri: doveva essere a tutti gli effetti un segno del destino.

Appoggiò per terra la canna e il borsone e bussò ancora una volta, più pesantemente. Chiamò l'amico ad alta voce. Accostò l'orecchio alla porta ma dalla casa non giungeva alcun rumore. Lanciò un'occhiata prolungata all'orologio, come se sul quadrante potesse leggere di un altro impegno o di un improrogabile appuntamento. Elemosinò una spiegazione anche al testo di lasagne che la moglie come ogni domenica gli aveva preparato per la loro uscita di pesca, ma fu tutto vano. Più stupito che seccato fece per raccogliere l'attrezzatura dando le spalle all'ingresso, quando gli giunse nitido il trillo del telefono. Quattro squilli, cinque... silenzio...; al decimo impugnò senza pensarci il pomello e la porta si rivelò insolitamente aperta. Sollevò la cornetta proprio nell'attimo in cui l'apparecchio si ammutolì.
“Franco...”, esclamò osservando la stretta scala a chiocciola che saliva al secondo piano.
“Franco!”, urlò con voce più decisa, turbato da uno strano presentimento. Sul tavolo al centro della sala era dispiegata una mappa nautica ingiallita ma dai colori vivaci. Accanto un taccuino con copertina in cuoio e una stilografica in mezzo. Si guardò intorno con un po' di esitazione, poi lo aprì alla pagina dove era infilata la penna.
C'era un elenco con due soli punti: “1) Rob. Crusuè 2) Vera storia Long John Silver”. Lo stesso tratto nero martoriava estese porzioni della cartina: erano appuntati orari e numeri, forse coordinate.
Ebbe un'illuminazione, compose il numero alla velocità della luce e si incollò il cellulare all'orecchio in fremente attesa. Un forte brusio lo attirò al comò vicino all'ingresso: il telefonino saltellava sul posto e da una ciotola in legno strabordava un groviglio di chiavi colorate. Sospirando spense il nokia dell'amico e si accorse di una busta con il logo dell'ospedale che spuntava dal cestino ai piedi del mobiletto.
La data era di due settimane fa. Due fogli A4 grappettati assieme. In uno una lunghissima tabella a colonne verdi e gialle, piena di cifre, intervalli di valori e parole astruse. In fondo all'altro cinque righe grassettate in rosso. Sgranò gli occhi, dischiuse istintivamente le labbra, il pensiero gli morì in gola. Rimase immobile nella casa deserta. Sopra di lui il secondo piano, con un bagno e la camera da letto. Più su ancora la mansarda, il vecchio divano logoro con la coperta di lana rattoppata, il caminetto e l'ingombrante televisore impolverato. Le carte gli scivolarono di mano.

Franco fissava il soffitto della cuccetta. Il lieve rollio di quella reggia galleggiante cullava le sue meditazioni infondendogli un ardore e un ottimismo mai provati prima. Consultò nervosamente l'orologio subacqueo: erano passati cinque minuti, e cinque minuti ancora dalla volta prima. Mise l'orecchia alla pagina del libro, lo ripose malamente nel borsone impermeabile e salì in coperta. Il ponte era spazzato da una brezza delicata, quasi impalpabile e il parquet luccicava al pallido bagliore lunare. Si guardò intorno. Alla sua destra una sottile lingua di fumo si stagliava dalla sagoma immobile di una coppietta appoggiata al corrimano di poppa, ad una ventina di metri. Dall'altra parte una ragazza sonnecchiava stesa sull'asciugamano, gli auricolari sepolti sotto una foresta di ricci biondi. Lo scintillio del piercing all'ombelico accompagnava sensuale il lieve sussulto del respiro, il bikini arancione esaltava la seducente carnagione olivastra.
Appoggiò a terra lo zaino che teneva in spalla e scrutò il mare e l'orizzonte che formavano un'indistinta amalgama turchina. Non aveva punti di riferimento ma si fidava ciecamente dei suoi calcoli, aveva consumato troppe notti ad arrovellarcisi e a rivederli. Diede un'ultima occhiata ai potenziali testimoni, poi si sfilò in fretta i vestiti e li pressò nella sacca.
La ragazza si tirò su a sedere, staccandosi le cuffie dalle orecchie con un'espressione tra il perplesso e l'assonnato. Per un attimo le era sembrato che un tonfo estraneo si fosse insinuato nei suoi ritmi martellanti e indiavolati. Lo sciabordio delle onde sullo scafo era placido e regolare. Le uniche altre due persone sul ponte erano sempre intente a scambiarsi effusioni. La pigrizia ebbe la meglio sul dubbio, quindi, seppur arricciando le labbra in una smorfia d'indecisione, sistemò i due triangolini sul seno prosperoso e continuò a farsi stordire dalla sua musica.

La moglie accorse trafelata al suono del campanello, alquanto seccata per essere stata interrotta nelle preziosissime e delicatissime operazioni di bellezza e restauro. Avrebbe scommesso che erano i testimoni di Geova e visto il disprezzo che nutriva per loro non si sarebbe nemmeno vergognata di presentarsi coi bigodini e la maschera verde acido al cetriolo.
“Che ci fai qui? Non dovevate andare a pesca??”. La sorpresa fu grande nel trovarsi di fronte il marito uscito di casa nemmeno un'ora prima, col ridicolo gilet mimetico a dodici tasche, il cappellino a caciotta grigio e il testo di lasagne sorretto a due mani.
“Tumore... un tumore al pancreas”, balbettò inebetito.
La moglie rimase impietrita sull'uscio. “Cosa?? Luigi... tu??? ... da quando??”, farfugliò.
Il marito sgattaiolò in casa lasciando sul vialetto zaino e canna da pesca. Appena varcata la soglia la afferrò saldamente per le spalle.
“Franco ha un tumore al pancreas... almeno credo... sì sì, l'ho letto... l'ho visto... in una lettera dell'ospedale”. La moglie non seppe che rispondere, gli occhi spalancati e fissi in quelli di lui, uniti nello sconcerto. Rimasero così, nell'atmosfera pesante della casa vuota, come malinconici istrioni di una parata carnevalesca teletrasportati di colpo altrove.

La mastodontica sagoma scemava all'orizzonte nella notte chiara mentre Franco dandole le spalle nuotava lentamente. Sarebbe arrivato in un'ora, secondo i suoi calcoli. Si fermò un secondo per controllare che il borsone non assorbisse acqua ma sembrava tutto a posto. In lontananza un delfino saltava nella scia della nave e qualche piccolo oblò si illuminava repentino.
Fece un respiro profondo e riprese a nuotare. La direzione era giusta, il difficile era resistere un'intera mezz'ora. Per fortuna andava in palestra tre volte la settimana, altrimenti la sedentarietà da piccolo burocrate lo avrebbe condannato. Il pensiero lo fece sorridere, in fondo non lo era lo stesso, condannato? Iniziò a fendere le onde con bracciate più energiche e a muovere le gambe con più veemenza: no, non era condannato... al contrario, era più che mai libero!
Iniziava ad accusare la stanchezza, il respiro si era fatto affannoso. Non riusciva più a mantenere la postura e procedeva con la testa fuori. Il mare si era ingrossato e ogni tanto beveva un pochino. Si lasciò galleggiare supino, distendendo bene gambe e braccia per riprendere fiato e raccogliere le ultime forze. Le stelle brillavano intensamente e la luna era enorme, si distinguevano i dettagli dei crateri. Allungò una mano come a volerla toccare, sembrava che quel cielo così terso da essere quasi surreale iniziasse a un metro dal suo viso.
Niente male per un cinquantaduenne. Figurarsi se il suo amico Luigi ce l'avrebbe fatta... Lo zaino galleggiava consolante al suo fianco. Un'occhiata all'orologio: l''ultimo sforzo.

Planò sul bagnasciuga finendo a gattoni e rimase qualche minuto a boccheggiare a faccia in giù, mezzo insabbiato e coi capelli impiastricciati di alghe e qualche rametto. Per prima cosa serviva un posto dove passare la notte. Tirò all'asciutto lo zaino, si asciugò col telo da mare e si rivestì: sandali di cuoio, pantaloncini corti e camicia hawaiana rossa a fiori bianchi. Si tolse l'orologio e lo scagliò lontano fra i flutti. Scorse ad una ventina di metri una piccola grotta che faceva al caso suo. Avrebbe dormito lì. Era una nicchia lunga non più di tre metri e doveva camminare carponi per non sbattere la testa. Il terriccio era umido e dal soffitto pendevano escrescenze di roccia grandi quanto un pugno. Intanto aveva iniziato a piovere debolmente.
Dispose a terra, una a fianco all'altra, le poche cose che si era portato dietro, per fare mente locale in previsione del nuovo giorno che lo attendeva: “Robinson Crusoe”, di Daniel Defoe, in edizione economica, stretto e spesso, copertina bianca; “La vera storia del pirata Long John Silver” di Bjorn Larsson , un bel tomone in copertina grigia; un piccolo machete per tagliare arbusti, se ce ne fosse stato bisogno; un coltello da caccia a lama liscia e seghettata; un fornelletto da campo; tre scatole di fiammiferi e trenta accendini; una coperta di lana a quadri rossi e blu; una felpa della nike con cappuccio e un k-way; un unico gavettino per mangiare e bere; un rotolo di nastro isolante e infine una ventina di metri di corda.
Per il resto avrebbe improvvisato, magari prendendo spunto dalle letture. Voleva vivere quell'avventura così come veniva, tanto sarebbe durata due o tre mesi al massimo. Sapeva che c'era un fiume, quindi per l'acqua era a posto. Dovevano esserci capre e conigli: con una capra poteva tirare avanti una settimana e male che andava, se non catturava niente, poteva approfittare di bacche e noci di cocco.
Sporse la testa dal rifugio, gli occhi chiusi rivolti al cielo plumbeo e la bocca spalancata ad accogliere la pioggia ora più insistente. Rimpianse la mancanza di un recipiente per raccoglierla e si ripromise che l'indomani se ne sarebbe costruito o procurato uno. Nei suoi progetti comunque il fiume restava sempre la principale risorsa per dissetarsi e lavarsi. Stese la coperta e ci si rannicchiò sopra. Rabbrividì un istante e starnutì forte. Si infilò la tuta e si mise sotto la coperta, a contatto col terreno. Faticava a prendere sonno, irritato dal pizzicore lieve ma costante delle formiche sulle gambe nude.
Lo svegliò un rigagnolo che dal soffitto gli colò sulla guancia. Si stropicciò gli occhi, dall'ingresso filtrava luce. Doveva essere tarda mattinata, le dieci e mezza o forse le undici, a giudicare dal caldo. Si tolse la felpa e uscì all'aperto. La notte scorsa non si era accorto che lì intorno era tutto pieno di palme. Si fermò a contemplare il suo nuovo regno. Dopo un'esigua striscia di fine sabbia bianca iniziava un'intricata boscaglia che ammantava pendii via via più scoscesi; un monticello si ergeva proprio alle sue spalle. Decise di puntare in quella direzione. Mentre si apriva il sentiero col machete variopinti stormi di farfalle vorticavano fra i rami più alti.
Assaggiò le piccole bacche rosse che pinticchiavano gli arbusti bassi: avevano un sapore dolciastro lievemente nauseante. Ogni tanto al suo passaggio una lepre saettava nei cespugli. Sedette un momento a riposare su un grosso masso levigato, lungo e piatto. Posò il machete asciugandosi la fronte col fazzoletto e scrutando il cielo. Fra gli sprazzi di sole e il verde delle chiome grappoli di gigantesche noci di cocco calamitavano la sua attenzione: se non avesse trovato il fiume avrebbe potuto ricavarci acqua potabile. Per costruire il cesto in cui accumularla avrebbe usato quelle liane, che come ragnatele calavano dai tronchi e si concentravano in un fitto intrico ad altezza d'uomo.
D'improvviso un crepitio alle sue spalle lo fece trasalire. Schizzò in piedi brandendo il machete verso l'energumeno che gli si parava dinnanzi. Dal tricorno piumato partiva una folta e incolta barba corvina. Una vistosa cicatrice tagliava obliquamente il viso dallo zigomo alla bocca, interrotta solo dalla benda nera sull'occhio destro. Portava una camicia di cotone bianca e sborsante senza colletto, pantaloni alla zuava grigi e stivali in cuoio con risvolto. Dalla fusciacca rossa in vita pendeva una scimitarra palesemente finta, di quelle di plastica. Sulla spalla era cucito un peluche di pappagallo giallo blu e rosso, frusto e sporco.
“Hai trovato la mappa del tesoro??!!”, ringhiò lo sconosciuto.
Franco rimase interdetto.
“L'hai presa tu!!!”, urlò il bislacco pirata.
“... Chi sei? Credevo che quest'isola fosse deserta...”, balbettò Franco prima di sentire le gambe cedere di schianto. Si contorceva a terra spasmodicamente, la vista era sempre più offuscata. Percorso dalla folgorazione l'ultimo pensiero fu per quel bestione che gli si avventava contro.
Lentamente le cose attorno prendevano forma e acquistavano nitidezza. Sembrava una stanza d'ospedale. Cercò di alzarsi ma riuscì solo a sollevare il collo quanto bastava per vedere i polsi e le caviglie bloccati da bracciali. Era nudo sotto un ampio camice verde.
“Li abbiamo catturati dottore”, disse una voce compiaciuta alle sue spalle.
Su un lettino di fianco al suo giaceva il possente corsaro, immobilizzato e ancora privo di sensi.
“Volevate farvi una vacanza, eh? Giocavate alla caccia al tesoro??!”, l'apostrofò un ometto calvo con uno striminzito pizzetto bianco e dei minuscoli occhiali tondi. Appuntata al camice una targhetta: “Dott. Alfonsi”.
“C'è un errore, vi sbagliate! Io non sono matto, non lo conosco questo qui, mi chiamo Franco Virg...”
“Certo certo come no”, asserì il medico in tono aspro e indifferente iniettandogli al collo una siringa di liquido verde. Si sentì come stretto in una morsa potentissima. Voleva parlare ma non articolava nessun suono. Non riusciva a muovere un muscolo. Roteando per la stanza gli occhi sempre più pesanti vide un nugolo di infermieri che si indaffarava attorno al suo letto.
“Credevi di averla scampata ma ti è andata male. Non andrai più da nessuna parte. Preparatelo per la lobotomia.”, sentenziò il dottor Alfonsi.
Intanto sulla spiaggia, poco distante dalla grotta dove aveva dormito la notte prima, un'onda più potente delle altre scopriva parzialmente una mano rattrappita. Un gabbiano planò delicatamente sull'indice. Assestò qualche beccata, scagliò freneticamente in giro gli occhietti neri e spiccò il volo a pelo dell'acqua.

Opere autopubblicate su Narcissus e Amazon


Qui di seguito trovate i link per i miei racconti acquistabili sulle due piattaforme citate nel titolo:

http://www.ultimabooks.it/idol2/result/?q=salvatore+di+sante

Nella prima pagina trovate: Racconti Gialli (una raccolta di quattro racconti brevi), Frammenti d'assurdo (Volumi I e II), 17 e Sicario a zero ore.

N.B. : Se scorrete con la freccia a destra, nella pagina seguente c'è l'ultimo mio racconto, Storie di fantasmi

Se cliccate sulle copertine potete leggere le varie informazioni circa la pubblicazione, cliccando "Vai alla descrizione completa" avrete invece la sinossi di ogni racconto.


Questo invece è il link per la pagina in italiano di Amazon:

http://www.amazon.it/Racconti-Gialli-ebook/dp/B004T51ORK


Spero vi interessino e buona lettura!

P.S.: Da gennaio 2013 ho ritirato dalla vendita Sicario a zero ore e i due Frammenti, che quindi posterò su questo blog.