venerdì 30 novembre 2012

Rosso Natale

Lentamente mise a fuoco le cime innevate, nemmeno tanto piccole, là sotto. Greta si stiracchiò, sfiorando la guancia del cinquantenne che le ronfava accanto. Lo osservò di sfuggita: giacca e cravatta, pizzetto e capelli rasati; una valigetta ammanettata al polso destro spuntava da sotto il sedile. Un uomo d'affari, o magari un agente segreto con informazioni top-secret.
Sorrise, si tolse le cuffie e continuò a guardare fuori dal finestrino.
Appena scesa avrebbe telefonato ai nonni.

Il vecchio John consumava beato la colazione, sorseggiando caffellatte e sbocconcellando una grossa fetta di pane con burro e marmellata di more. La stufa a legna diffondeva un lieve tepore, sul gas dell'acqua bolliva in un pentolino.
“Buongiorno!”, esclamò la moglie scendendo adagio le scale in pietra e aggrappandosi saldamente al corrimano in mogano. “Ah... mi hai messo su l'acqua per il te...”, sorrise, “Sono le nove, tra poco Greta dovrebbe atterrare”
“Uhm...”, bofonchiò John appoggiando la tazza di coccio, “Già. Chissà come le sarà venuto in mente di venire fin quassù...”
“Eddai, per una volta che viene a trovarci, non brontolare sempre... non la vediamo da quando era bambina... devi esserne contento!”, lo riprese Lisa bonariamente.
“Ma sì, scherzavo...”, disse John alzandosi e sgranchendosi le gambe, “Anzi... vado giusto a prendere l'albero di Natale per la mia nipotina preferita...”
Il telefono li interruppe.
“Ciao nonna, sono atterrata. Tra mezz'ora prendo l'autobus, dovrei arrivare per mezzogiorno”
“Hai fatto un buon volo? Qui fa freddo eh, sentito? Non come a Roma... ti sei coperta?”, chiese Lisa.
“Sì sì, il volo è andato bene, ho dormito tutto il tempo. Da me c'erano venti gradi, non sembrava per niente Natale... sono proprio contenta di rivedervi! Allora a dopo...”, esclamò con voce squillante.
“Ti preparo lo spezzatino di cervo!”, urlò John infilandosi la giacca a vento e raccogliendo un mazzo di chiavi sul mobiletto all'ingresso.
“Che buono, grazie nonno! Ci vediamo fra poco!”, gioì Greta.
John aprì a fatica lo spesso portone, la neve arrivava quasi a metà. L'insegna in ferro col nome era caduta sui gradini, probabilmente a causa della bufera notturna.
Dalla finestra Lisa seguì il vecchio furgone sgangherato che arrancava per la collinetta verso il boschetto di abeti.
Con la coda dell'occhio scorse il vicino uscire di casa senza richiudere la porta e accovacciarsi in giardino. Continuò a fissarlo, ma quello non si muoveva. Poco dopo apparve la moglie, ancora in vestaglia, e gli gridò qualcosa.
Lisa osservava nascosta dietro le tendine, incerta sul da farsi.
D'un tratto l'uomo balzò in piedi come una furia e si precipitò in casa. Dopo essersi guardata attorno, la moglie sparì dietro di lui richiudendo la porta.
Lisa alzò la cornetta e compose il numero con apprensione.
“Pronto...”, sussurrò una voce rotta dai singhiozzi.
“Ellen, sono Lisa, che succede, va tutto bene?”
“Lisa... non so... Peter è strano stamattina... non so... ci hai visto prima, in giardino?”
“Si. Per quello ti ho chiamato.”
“Maledeeettoooo il Natale!”, Lisa sentì gridare all'altro capo. Poi urla confuse, cose trascinate e rotte e pianti di bambini. La comunicazione si interruppe.

Il vento fischiava tra le assi della baita e sferzava le finestre di nevischio e pioggia.
Le due case erano sinistramente isolate. Per miglia e miglia solo una soffice coltre bianca, più spessa di minuto in minuto. Lisa gettò un'occhiata al cucù sulla parete: John ancora non tornava e lei era molto agitata.
Il telefono la fece trasalire.
“Sono Ellen...”, la vicina parlava in tono sommesso ma calmo. “Scusa per prima... che figura! Chissà che avrai pensato...”
“State bene? Cosa era successo? Ho sentito un po' di trambusto al telefono...”, disse Lisa premendosi il ricevitore sull'orecchio.
“E' passata adesso”, rispose Ellen, “non è successo nulla, stiamo bene”
Dall'apparecchio non giungevano rumori sospetti.
Lisa non diceva nulla, come aspettando conferma dall'amica.
“Va tutto bene...”, ripeté Ellen a voce più alta, “non preoccuparti. Peter è solo un po' stanco. Grazie, grazie per l'interessamento...”
“D'accordo, allora ciao”, pronunciò Lisa con un filo di voce. “Ah... ehm... Buon Natale a tutti!”, aggiunse poi un po' in imbarazzo.
“Sì... Grazie.”. Un attimo di silenzio. “Buon Natale anche a te e John”, e mise giù.

Imbacuccata nel cappotto nero, in piedi in mezzo al nulla innevato, Greta scrutava ora una casa ora l'altra. Dopo tanti anni non ricordava più quale fosse.
Si aspettava che i nonni uscissero ad accoglierla. Pescò dalla tasca il cellulare e chiamò. Squillava a vuoto. Lisa era riversa sul divano, la coperta di lana sulle gambe, tramortita dalle esalazioni di monossido di carbonio.
Decise di suonare all'altra casa.
Intanto una fila di auto col lampeggiante blu saliva per la collinetta dove si era diretto suo nonno poche ore prima.
Suonò la seconda volta. La porta si aprì di scatto. Un energumeno con la faccia imbrattata di sangue la afferrò per le spalle e la scaraventò dentro casa. Indossava un berretto verde calato fin sugli occhi e brandiva una scure.
Stesa sul pavimento, Greta aveva davanti a sé un albero di Natale con tre teste appese: una donna, un ragazzino e una ragazzina. Bionde, grondanti sangue e filamenti d'interiora.
Avrebbe gridato ma Peter le fracassò il cranio con un colpo d'ascia che frantumò anche il parquet.
La pozza di sangue, allargandosi placidamente, lambiva i luccicanti pacchi regalo.
Peter ansimava con gli occhi fuori dalle orbite, sussurrando ogni tanto: “Buon Natale!”.

sabato 24 novembre 2012

Butterfly Edizioni


"Gentile autore,
il suo racconto "L'estate del primo amore" ha ricevuto parere positivo per la pubblicazione nell'antologia Impronte d'amore che uscirà tra gennaio e febbraio del 2013..."

mercoledì 21 novembre 2012

L'isola dei sogni


Il vecchio scrutava i flutti alitandosi sulle mani e stringendosi al collo il bavero della blusa. Nella notte senza luna il mare e il cielo si confondevano in un amalgama plumbeo. Qualche raffica di vento sollevava mulinelli di foglie secche, sulla banchina deserta.
Intravvide un movimento nella foschia: era una polena. Una sagoma imponente si stagliò all'improvviso di fronte a lui. Il bianco teschio della bandiera spiccava nell'oscurità. Il veliero entrò in porto beccheggiando e rollando.
“Sei tu Dalton?”
“Voi dovete essere il capitano Silver...”
“In carne e ossa, per tutta l'ambra dei capodogli!”
L'equipaggio saltò giù rumoreggiando, chi ridendo sguaiatamente, chi inciampando e imprecando.
“Jack Silver al vostro servizio signore!”, esclamò il filibustiere levandosi il tricorno.
“Che ne dite di accomodarci nella locanda, al coperto si parla meglio, non credete?”, disse Dalton.
“Con questo tempo da lupi due o tre bottiglie di grog ci vogliono proprio, eh ciurma?”, tuonò il capitano.
“Yeahhh!!!”, gridò in coro l'equipaggio.
Silver indugiò qualche istante sulla porta, sotto gli sguardi stupiti o atterriti delle facce da forca che affollavano il locale. Due sirene con un boccale di birra schiumante ammiccavano dall'insegna che cigolava al vento.
Il nero corpulento che chiudeva la processione estrasse la rivoltella e con gran fracasso spazzò via una delle sensuali pescioline.
“Attenti a voi, branco di manigoldi! Non voglio casini: il primo che fa un'altra porcheria del genere gli taglio un braccio!”, sbraitò Silver impugnando la scimitarra che gli pendeva dalla fusciacca. Scelto un tavolo appartato, alla fioca luce di una candela, il vecchio aspettava di iniziare il discorso. Il fumo si tagliava col coltello. Il capitano gli sedeva di fronte. La zazzera bionda incolta e unta faceva tutt'uno con la barba, raccolta in una treccia che arrivava al petto. Una cicatrice biancastra campeggiava sulla guancia, cimelio di tanti arrembaggi e di innumerevoli zuffe.
L'uccisore di sirene alla sua destra si chiamava Gordon. Aveva la barba corta, tagliata alla nazarena, un anello d'oro all'orecchio e gli occhi come due fessure; giocherellava intagliando il tavolo con un serramanico.
Veniva poi il medico di bordo, che perlopiù segava ossa e stordiva i malcapitati con rum e oppiacei. Taylor si chiamava e sembrava il più giovane: sulla trentina, occhio e croce, palliduccio ed emaciato ma con uno sguardo glaciale dietro le spesse lenti. Era l'unico del gruppo a rimanere perfettamente immobile.
Per finire c'erano i fratelli Johnson, identici nell'aspetto e nella stupidità, a sentire il capitano. Grandi e grossi quanto Silver, bevevano all'unisono dai calici sbeccati, impregnando di spuma i mustacchi castani. Nelle menomazioni non erano gemelli: all'uno mancava un occhio e all'altro una mano. Anche se quell'uncino, aveva assicurato Silver, aveva sbudellato più di un ufficiale.
Dopo diverse occhiate furtive per il locale, Dalton dispiegò sul tavolo una pergamena su cui era disegnata una mappa.
“Vi ho convocato per la vostra fama, capitano Silver, vostra e del vostro equipaggio”, disse il vecchio soffermando lo sguardo su ognuno. Gordon fece scattare il serramanico abbozzando un sorriso malizioso, i gemelli appoggiarono rumorosamente i bicchieri di terracotta e ruttarono in coro. Il dottore non fece una piega.
“Ho pochi marinai, ma sono i migliori al mondo; veniamo al sodo adesso”, tagliò corto Silver. “Io e i miei uomini obbediamo a una sola legge. Ce l'hai la grana?”
Dalton prese un sacchetto di iuta da una tasca interna e glielo porse.
Il capitano allentò delicatamente il legaccio e quando sbirciò dentro si illuminò in viso.
“Bene, oro sonante ciurma!”, annunciò facendolo tintinnare.
“Devo arrivare qui”, disse Dalton puntando il dito sul foglio.
“E' dopo lo Stretto delle Orche; nessuno sa cosa c'è laggiù e nessuno è mai tornato per raccontarlo!”, sussultò Gordon piantandoci con foga il coltello.
“Che c'è, hai forse paura Gordon?”, intimò Silver, “Ricordi quando hai ucciso a mani nude dodici indigeni armati di lance, nel Borneo meridionale? O quando hai scavato il terzo occhio a quel generale di marina... ti eri pure scolato tre bottiglie di acquavite, eh?”
Gordon sorrise e accarezzò la rivoltella infilata nei calzoni.
“Non voglio codardi nella mia ciurma, intesi?!”, continuò poi squadrando i suoi uomini, “allora canaglie, non basta quest'oro a darvi coraggio?”
“Siiiii !!!”, vociarono tutti assieme alzando i calici.
“Osteee !!! Un altro giro di birra per tutti!”, berciò Silver battendo così forte i pugni sul tavolo che per poco non lo ribaltava, “ e anche un giro di rum!”. Poi fissò Dalton negli occhi e sussurrò:”Chi ti ha dato questa mappa?”
“Non vi riguarda. Se non volete accettare siete libero di andarvene, mi riprendo l'oro e ognuno per la sua strada”
“Non ti scaldare vecchio. Per quest'oro Silver e la sua ciurma ti portano anche sulla luna!”


Dal diario di bordo di Samuel Dalton:

17 Aprile, anno di grazia 1664

Stamane all'alba siamo salpati alla volta dello Stretto delle Orche. Dovremmo giungervi in due settimane circa, se il vento si mantiene favorevole. Nella stiva ci sono cibo e bevande per un mese. Non sappiamo cosa ci aspetta oltre quel funesto tratto d'oceano, né quanto mare resti poi da solcare fino alla meta, ammesso che vi arriveremo. Confidiamo nella Provvidenza.

12 Maggio, anno di grazia1664

Abbiamo superato lo Stretto delle Orche, grazie a Dio! Un vero inferno in terra! Navighiamo da due giorni in direzione sud-ovest. I viveri cominciano a scarseggiare. Abbiamo perso William, il gemello guercio, divorato da un mostro marino (suo fratello Peter ci ha rimesso una gamba nello scontro). Gordon è caduto vittima di un sortilegio: tramutato in spettro vaga ora su un vascello fantasma. Prego che il Signore ci conduca sani e salvi a destinazione.

10 Giugno, anno di grazia 1664

Verso mezzogiorno dalla coffa il dottor Taylor, improvvisatosi marinaio, ha gridato tre volte “Teerraaa!”; nella foga gli è sfuggito di mano il cannocchiale d'ottone e si è frantumato sul ponte. Che immensa gioia, che incredibile sollievo!!! A giudicare dalla descrizione che ne ha fornito mio fratello, sembra trattarsi proprio dell'isola verso cui eravamo diretti!

Dalle Memorie del capitano Jack Silver:

13 Agosto, anno di grazia 1684

Non avrei mai pensato di vedere la mia barba imbiancata; un privilegio per pochi in questo mestiere. Credo sia merito di quest'isola. Anche Taylor e Peter stanno benissimo, in vent'anni pare non siano invecchiati di un giorno.
Dalton mi ha confidato che la mappa da lui stesso disegnata era apparsa in sogno al fratello morente. Beh, è quasi logico...
Il vecchio è spirato felice l'anno scorso, con più di cento primavere sul groppone. Abbiamo affidato il suo corpo alle onde, come si conviene a un uomo di mare.
Questo è il luogo dei sogni. Prima non sognavo. Non tutti sognano, molti al risveglio non ricordano quasi nulla, qualcuno a volte è tormentato dagli incubi.
Qui si sogna ogni notte, sempre e solo quello che si desidera. Ci raccontiamo spesso cosa sogniamo, io, Peter e Taylor. Sogniamo di far l'amore con le sirene, con fanciulle dalla pelle d'ebano, in paradisi tropicali o in bettole malfamate; e fiumi di birra e di acquavite, e poi risate, risse, saccheggi, e dormite favolose sotto cieli stellati. Vent'anni così ti rendono un padreterno! Che io sia dannato se questo non è il paradiso, per mille spingarde!”

martedì 13 novembre 2012

Un gatto topo di biblioteca

Da quasi un anno la biblioteca comunale Mozzi Borgetti aveva una nuova attrazione che attirava visitatori da tutta la città, più delle ricercate miniature o dei rari incunaboli. Luca, un ragazzino pel di carota sugli otto anni e tutto lentiggini ne rivendicava orgogliosamente il primo avvistamento. Felix l'avevano chiamato, su suggerimento dello stesso scopritore, quel Luca di due righe sopra, famoso ormai quasi quanto il felino; lo stesso Luca che con gli amichetti si atteggiava a super-star, aggiustandosi più fiero che mai la montatura rossa delle spesse lenti.
Nessuno sapeva da dove fosse sbucato quel gatto.
Luca racconta che un pomeriggio di maggio, mentre era intento a leggere un libro di avventure (forse non troppo intento, visto che non si ricorda quale fosse), quel gattone tigrato rosso era balzato all'improvviso sul tavolo di fronte a lui, facendogli prendere un piccolo spavento (in realtà ne fu terrorizzato, ma non lo avrebbe ammesso di fronte ai compagni nemmeno sotto tortura).
Insomma, anche Macerata aveva il suo Dewey. E anche se era contro il regolamento, come Dewey anche Felix aveva la sua cuccetta: in un angolo della Specula, la sala più in alto. A volte, nelle giornate più limpide, quando i Sibillini si stagliavano nitidissimi, lo potevi trovare seduto sui sottili davanzali in legno, assorto davanti ai finestroni. Faceva una strana impressione vederlo lì quando la sala era deserta. Nel silenzio quegli occhi smeraldo erano troppo espressivi.
Felix non viveva dentro la biblioteca. La frequentava, se così si può dire. Dei giorni gironzolava in lungo e in largo, dalla Sala degli Specchi fin su nella Specula; altre volte invece oziava pigramente nella sua cuccia, facendo solo di tanto in tanto capolino da qualche porta. Ogni sera all'ora di chiusura spariva non si sa dove e la mattina dopo, puntuale, all'apertura, era pronto ad accodarsi al primo impiegato che arrivava.
C'era anche stata qualche lamentela per il comportamento bizzarro di Felix. Capitava che di punto in bianco, mentre si era immersi nella lettura, saltasse sul tavolo e si accovacciasse di fronte al libro, fissandolo. Inutile dire che ai più piccoli (ma in genere anche agli studenti universitari) questa invasione della privacy non dava affatto fastidio, anzi. Si divertivano ad osservarlo. Si sarebbe detto che stesse leggendo, o che cercasse di farlo. E anche con una certa testardaggine... in quelle occasioni era davvero difficile scacciarlo: non che fosse aggressivo, sia ben chiaro. Non aveva mai morso o graffiato nessuno, e ne aveva presi di manrovesci, gomitate o spintoni! Quello che colpiva era che, a ben guardare, spesso Felix si piazzava ad osservare con fissità determinati gruppi di volumi. Allora anche chi passava di volata non poteva fare a meno di impuntarsi ed esserne affascinato.
Non si appassionava a tutti i generi di libri. Un osservatore attento avrebbe notato che si aggirava intorno agli scaffali che trattavano di magia, esoterismo e occultismo. E quando qualcuno si sedeva a consultare uno di questi volumi, alle volte saltava su e gli teneva compagnia nella consultazione, finché la pazienza o la simpatia del lettore glielo consentivano.

Felix alzò di scatto il capo, vigile.
Il vecchio professore entrò in biblioteca di buon'ora. Non aveva lezione quella mattina, così ne aveva approfittato. Sapeva già cosa prendere e si diresse alla mensola con passo spedito, lanciando qua e là cenni di saluto ai gruppetti di alunni che l'avevano riconosciuto.
Aprì il grosso tomo ingiallito e sospirando inforcò gli occhialetti da lettura.
Felix si era messo in piedi e seguiva le sue mosse. Quando il professore si lisciava il pizzetto bianco o si grattava la fronte, le vibrisse di Felix fremevano agognanti e i suoi occhi si accendevano di un bagliore arancione.
Il micione saltò di fianco al professore, che ebbe un fremito. Intorno si levava qualche sguardo curioso e si spalancava qualche sorriso.
Il professore cercò di smuoverlo, dapprima con delicatezza.
“Scendi, dai”. Il gatto non si muoveva e lo guardava.
“Cosa vuoi?”, bisbigliò seccato il professore.
Felix miagolò. Un miagolio breve ma risoluto.
Il professore si tolse gli occhiali e ricambiò lo sguardo del gatto.
“Cosa c'è?”, gli chiese ancora. Seriamente, questa volta.
Felix miagolò di nuovo, sempre lo stesso miagolio risoluto di prima, questa volta più prolungato. E spostava lo sguardo dal professore al libro.
Il professore guardò lungamente il libro, poi lanciò una breve occhiata interrogativa al gatto.
Intorno quasi nessuno leggeva più, si godevano tutti il bizzarro siparietto.
Felix appoggiò ripetutamente una zampa sul libro, miagolando ogni volta per accompagnare il gesto.
“Vuoi che legga?”, chiese il professore. Ma non lo disse, lo pensò.
Come pensò di trovare la risposta negli occhi di Felix.
Raccolse gli occhiali e tossì piano, guardandosi furtivamente intorno. Poi iniziò a leggere a voce bassissima, da dove iniziava il periodo, più o meno dove Felix indicava con la zampina.
Vide il gatto schizzare dietro l'angolo non appena pronunciò l'ultima parola. Era un incantesimo celtico di trasformazione.
Il professore ebbe uno strano presentimento. Si alzò e si mise sui passi (sulle orme, per meglio dire) di Felix.
“Ops... scusi...”. Per poco non si scontrò con un ragazzo alto, dai lunghi capelli castani.
“Marco, ciao...”, esclamò il professore dopo un attimo di imbarazzo, “che fine hai fatto? Non ti vedo a lezione da un bel po'...”
“Professore... se sapesse...”, sussurrò piantandogli in faccia due occhi verdi profondamente turbati.
“Dimmi...”, insisté il professore.
Marco esitava.
“Dì la verità... è stata la formula”, lo incalzò il professore.
Marco lo fissava basito.
Il vecchietto si sciolse in un abbraccio e bisbigliò con gli occhi lucidi “Ah lo so, lo so cosa ti è successo. Spero proprio che sia come penso. Altrimenti non so che farò, la settimana scorsa ho tramutato mia moglie in un'oca...”

Il potere del rosmarino

Lo sguardo passava dal globo alle finestre, dal globo alla porta: non riusciva proprio a capacitarsi da dove l'avessero fatto passare... Per un attimo il fascino e l'enigma del mappamondo riuscirono a distrarlo. Il bibliotecario in piedi davanti a lui lo scrutava da dietro le spesse lenti aspettando una risposta.
“Concupisco con pervicacia il rosso e il blu di Stendhal”, esclamò perentorio.
Il suo interlocutore si lisciò i baffetti castani e fece un breve cenno di assenso.
“Ecco”, bisbigliò porgendogli un foglietto piegato in quattro e guardandosi attorno con circospezione.
Se lo infilò in tasca e a passo spedito scese verso la sala di lettura. Lungo il tragitto arpionò un volume a caso dagli scaffali aperti e si accomodò in un angolo. Abbassò le lenti scure e ispezionò furtivamente la stanza. Al suo tavolo non c'era nessuno. Più avanti un gruppetto di studenti pigiava sui portatili, ridacchiando di tanto in tanto sottovoce. Nessuna persona sospetta. Anche se, non essendo del mestiere, non era affatto sicuro di saperne riconoscere, quand'anche ce ne fossero. Sentiva il cuore andargli a mille. Fece un respiro profondo e appoggiò il libro sul tavolo.
Per la prima volta da quando aveva inforcato l'ingresso della biblioteca “Romolo Spezioli” fingendo sicurezza, si concentrò su se stesso. Fece scorrere lo sguardo sulle pareti, sulla rete metallica che faceva tanto pollaio e provò un disagio profondo. Si sentì fuori posto come mai prima d'ora.
Ma che ci faceva lì? Come gli era venuto in mente? Aveva persino comprato un completo nero con tanto di cravatta e scarpe abbinate. Ma la cosa più pazzesca è che aveva fatto più di centotrenta chilometri per arrivare lì. Lì dove l'aveva indirizzato quella surreale telefonata.
Anzi, intercettazione ad essere precisi. Il ricordo gli balenò vivido alla mente, si sentì mancare. Stava parlando col suo amico Giorgio quando si intromise quello strisciante brusio che via via si fece parola.
“Allora Giorgio alle nove al biliardo, poi facciamo le squadre per il torneo, ma gioca anche...”, bssss, bssss, “ci sei ancora? Giorgio...?”, bssss, bssss, “...blioteca Romolo Spezioli di Fermo, domani sedici e trenta..., bssss, bssss”. Era una voce bassa e tagliente.
“Pronto Giorgio... non ti sento... Giorgio...”, bssss, bssss, “sala del mappamondo... bssss bssss.... rola ordine... bssss bssss”.
Aprì il libro. Notò che gli era capitato “Il postino suona sempre due volte”. Sorrise amaramente: aveva visto il film, non c'era lieto fine.
Dispiegò il foglietto sopra il libro. Era una formula. Una concatenazione astrusa di elementi chimici. A colpo d'occhio colse il sodio, l'ossigeno e l'idrogeno: reminiscenze delle superiori. C'erano varie addizioni e sottrazioni e valori in percentuale.
Quantità di concentrazioni, probabilmente.
Poi ebbe un sussulto.
Evidenziati in rosso in quel marasma spiccavano due termini che conosceva bene.
Era l'ingrediente segreto della bevanda più famosa del pianeta!
Udì un tramestio dal piano superiore e poco dopo intravvide oltre la porta il bibliotecario coi baffetti. Discuteva animatamente con un energumeno calvo che indossava un completo identico al suo, ma di diverse taglie più grande. Il bibliotecario gesticolava agitato come chi cerca di giustificarsi per aver perso qualcosa e teme di perdere qualcos'altro di ben più importante. Tutti e due gettavano occhiate fulminee per la stanza. Il gigante pelato era una maschera di cera. Faceva paura. Il classico tipo capace di metter su la cuccuma, spezzare il collo del suo ospite e sorseggiare beatamente il caffè senza fare una piega.
Come li vide entrare in un'altra stanza sgattaiolò fuori e corse a perdifiato alla macchina. Aveva parcheggiato a pagamento poco distante, lungo le mura.
Partì senza sgommare, un occhio sempre incollato al retrovisore. Imboccò l'autostrada in un assolato pomeriggio di fine ottobre. Due spari echeggiarono e In Piazza del Popolo la gente si disperse fra grida di terrore.
Se avesse tardato appena cinque minuti avrebbe sentito il frastuono delle sirene e lo stridio delle gomme e avrebbe visto dieci agenti in tenuta antisommossa fare irruzione nella biblioteca.
Se avesse comprato il giornale il giorno dopo avrebbe letto del cadavere dietro l'orologio, al piano più alto della biblioteca.
Ma lui era a tutt'altre latitudini. Sbandonato sulla sdraio a bordo piscina sorrideva allo splendore del panorama tropicale, dalla sua villa principesca a strapiombo sul mare. Il suo elicottero personale atterrando gli scompigliò furiosamente i capelli. Lui continuava a sorridere, in accappatoio, sorseggiando un mohito e accarezzando il rametto di rosmarino che da quel giorno epocale, il giorno del ricatto, portava sempre nel taschino. Di qualsiasi maglietta, camicia, giacca, cappotto, vestaglia, soprabito, pigiama o accappatoio.

Una notte in biblioteca

Non ricordava quanti anni fossero passati dall'ultima volta che ci aveva messo piede. I tempi della scuola erano lontani. Così aveva preso la palla al balzo ed era fuggito dalla vociante squadra di muratori alle prese col bagno nuovo, con tutto quel trapanare, battere e squassare.
La biblioteca Oliveriana esercitava un fascino più ammaliante che mai. Una giornata diversa dal solito era quello che ci voleva. Scaldato da un generoso sole d'inizio autunno aveva scappottato la spider, aveva buttato sul sedile del passeggero “Lo Hobbit” di Tolkien ed era partito di gran carriera.

La sala lettura era molto affollata. Si era ripromesso di leggere almeno un centinaio di pagine, ma non riusciva proprio a concentrarsi. Lo sguardo fuggiva sempre più spesso e spaziava curioso per i mastodontici scaffali e sugli ampi tavoli di legno scuro. Si domandò quante e quali storie fossero celate dietro quelle ante, impresse da inchiostri magari centenari.
Gli balenò il pensiero che non gli sarebbe affatto dispiaciuto lavorare in una biblioteca, magari proprio in quella. Purtroppo c'era il problema del titolo di studio: la maturità classica, per quanto pertinente, non poteva competere con una laurea in Conservazione dei Beni Culturali.
Ma non era il momento di farsi prendere da una crisi di mezza età e dal bilancio della propria vita. Doveva essere un pomeriggio spensierato: meglio dedicarsi all'osservazione furtiva degli altri frequentatori.
Immerso in quella quiete senza tempo ci si divertiva moltissimo. Un camion sul pavè fece vibrare i finestroni. Pensò al frastuono che doveva esserci in quel momento a casa sua e fu invaso da una caldissima sensazione di libertà e beatitudine.
Il ragazzo di fronte a lui era orientale. Una foltissima zazzera nera da cui si biforcavano le bianche propaggini di un I-Pod e una felpa bianca con la gigantografia di uno smile.
“Fondamenti di biologia vol. 2”: che mattone. Avrebbe detto piuttosto che studiasse una qualche materia artistica o al limite informatica.
La ragazza due tavoli più in giù, a destra, era davvero carina. Un po' troppo giovane forse... ma d'altronde quasi sempre le ragazze che gli piacevano erano troppo giovani. Con le dovute proporzioni, s'intende; giovani come può esserlo ad esempio una venticinquenne per un trentasettenne. A chi è che non piacciono le ragazze giovani alla fin fine? E poi si stava solo guardando in giro per ingannare il tempo, era forse vietato? In una biblioteca anzi era una delle poche cose consentite.
Aveva lunghi capelli biondi che le ricadevano sulle spalle. Indossava un maglioncino leggero con scollatura a V, verde. Era intenta nella lettura di un grosso tomo e a fianco aveva appoggiato un MacBook.
Aspettava di vederle gli occhi, ma rimaneva perfettamente immobile. D'un tratto si spostò dal libro al portatile e due iridi verde smeraldo guizzarono dalle sottili lenti rettangolari. Era decisamente bella.
Non si era accorto di fissarla e quando la ragazza incrociò il suo sguardo nel sistemarsi la graziosa montatura rosa, trasalì imbarazzato e fece finta di sprofondare nelle sue avventure di nani, elfi e draghi. Aspettò qualche istante poi con circospezione risollevò lo sguardo.
Qualcosa di anomalo lo disturbò. Sul momento non riuscì a capire cosa. Poi la fanciulla si ravviò di nuovo i capelli e allora la vide. Un'orecchia a punta, lunghissima. Di nuovo si ritrovò a fissarla, questa volta per un motivo ben diverso. Di nuovo la ragazza lo sgamò e inaspettatamente gli sorrise. Anzi, questa volta fu lei a fissarlo. Rimase basito. Gli occhi le fiammeggiavano di un bagliore dorato.
La vibrazione del cellulare lo fece trasalire. Aprì il display e lo richiuse seccato. La ragazza era tornata alle sue letture.
Visto che doveva andare al bagno pensò di passarle a fianco e sbirciarle le orecchie, se riusciva.
Mise il segno al libro, ficcò il telefono nella tasca del marsupio e si alzò con calma.
Procedeva lentamente, con lo sguardo basso. Quando fu vicino alla ragazza rallentò ancora di più tenendo sempre gli occhi puntati su di lei. Questa volta però non si sistemò i capelli, non fece nulla a parte continuare a stare china sul suo libro. Era un trattato sulla mitologia celtica.
Una signora ad una postazione nel corridoio gli consegnò le chiavi del bagno e gli indicò la strada e lui con l'entusiasmo ingenuo e traboccante di un fannullone in vacanza si arrampicò per le suggestive rampe di scale in pietra.
Mentre si lavava le mani guardandosi nello specchio, per chissà quale astrusa associazione mentale, tipo sapore della madeleine, gli tornò in mente una visita guidata che aveva fatto sempre lì, in prima liceo. Con la sua classe aveva visitato il museo Oliveriano, adiacente all'entrata della biblioteca e gli archivi storici al piano superiore. Gli balenarono alla mente i reperti di epoca etrusca, le statuette in terracotta e bronzo, le steli con le incisioni in doppia lingua, le urne cinerarie, le raffigurazioni delle divinità e dei pascoli... un vortice di sensazioni e immagini lo investì furiosamente. Si sentì mancare, la vista si affievoliva.
Si ritrovò steso a terra, accanto al lavandino. La stanza intorno prendeva lentamente forma e intanto gli saliva dalla spalla un bruciore sempre più acuto. Per fortuna non aveva battuto la testa. Era svenuto, incredibile! In vita sua gli era successo solo un'altra volta, quando da ragazzino gli avevano fatto un prelievo per delle analisi. Uno sguardo all'orologio: l'una di notte. Possibile che in tutte quelle ore nessuno avesse avuto bisogno del bagno? Strano.
Chissà se c'era un vigilante, una guardia giurata...
Possibile che nessuno avesse notato il suo libro, il marsupio e il giubbotto di pelle sulla sedia?

Trovarsi in una biblioteca a notte fonda è qualcosa di indescrivibile. Tra il sacro e l'orrifico.
Fece la massima attenzione per non rompersi l'osso del collo per le scale e si diresse alla sua postazione.
Una pallida luna si stagliava nelle finestre del corridoio rischiarando il silenzio più assoluto.
Era quasi arrivato alla soglia quando una voce di donna lo paralizzò.
Era impossibile che ci fosse ancora qualcuno. Forse la guardia.
Un'altra voce si aggiunse a quella di prima, poi un'altra ancora. Atterrito trovò a tentoni un tavolo e ci si accovacciò a fianco. Il portone era aperto, la luce accesa e dalla sala lettura giungeva un chiacchiericcio sempre più intenso e rumore di passi.
Fece timidamente capolino. La ragazza bionda di prima conversava amabilmente con un gigantesco lupo grigio che stava eretto su due zampe. Era scalza, vestita di pelli e portava una corona di fiori. Avrebbe detto che era un elfo. Più in là due dame di fine ottocento discutevano dei salotti della Pesaro bene. Vari libri erano sparpagliati sui tavoli.
Come mise piede nella stanza ebbe tutti gli occhi addosso. Poi quelle creature si tramutarono in fasci di luce che saettarono ognuno dentro un libro. I volumi si richiusero con gran rumore.
Era rimasta solo la ragazza elfica, che sorridente gli si avvicinò e mormorò: “Siamo lo spirito degli Scritti, siamo il sapere e l'essenza del mondo. Ogni tanto abbiamo bisogno di manifestarci per trarre nuovo vigore e infonderlo agli esseri umani. Perché avvertano l'importanza del sapere, della cultura e della condivisione. Tienilo sempre ben presente. Fa tesoro di tutto questo!”

La Quarta Guerra Mondiale

“E' quasi pronto...”, gli sorrise facendo capolino nella stanza.
“Si Ma', un minuto e arrivo”, rispose continuando a fissare il monitor olografico.
Mentre digitava sul piano cottura pensò a quanto suo figlio si impegnasse negli studi e si sentì molto orgogliosa.
Marco frequentava la facoltà di Bio-robotica e benché fosse solo al primo anno aveva già passato cinque esami col massimo dei voti: una cosa più unica che rara.
Anna inserì tre capsule variopinte nella fessura e spinse il bottone. L'oblò del forno si animò come una centrifuga, brillando di tanto in tanto di riflessi cangianti. L'amalgama prese forma velocemente finché, annunciati da un leggero bip, emersero sul ripiano laccato bianco un pollo arrosto fumante, un cubo di purè e una piramide di pisellini.
“Eccomi, pronti!”, esclamò Marco precipitandosi a tavola col libro sottobraccio.
“Che studiavi di bello?”, chiese sua madre guardando un po' preoccupata fuori dalla finestra.
“Lunedì ho l'orale di storia antica, dal ventunesimo al ventiquattresimo secolo. Si, ma tanto non è un fondamentale. Papà ancora non è tornato?”, domandò Marco mentre la pelle del polso sinistro si raggrumava leggermente e l'orario prendeva forma a fosfori verdi.
Intanto i due soli cerulei stavano quasi tramontando. La tempesta di sabbia imperversava, gli anelli purpurei di π564-bis si intravvedevano a stento nel marasma di pulviscolo ocra.

La saracinesca dell'ingresso in fibra di carbonio scattò con un sibilo.
“Che tempaccio! Ce l'ho fatta, sono tornato finalmente”, disse sganciandosi il casco.
La moglie fece un sospiro di sollievo. “Ero in pensiero, vieni a tavola dai, ho appena preparato”.
L'uomo sganciò il bottone sulla spalla sinistra, la tuta si aprì sul davanti e si afflosciò alle caviglie con un lieve sbuffo. La raccolse alla rinfusa, le diede due o tre pacche per scrollare la patina giallastra e la affibbiò all'appendiabiti che emerse automaticamente dal muro alla sua sinistra.
“Com'è andata al lavoro?”, chiese Anna.
“Ciao Ba'”, fece Marco che aveva già iniziato a mangiare.
“E aspetta!”, lo redarguì bonariamente la madre.
Marco sorrise verso il padre che, come sapeva, non aveva nessuna intenzione di arrabbiarsi.
“Due scatole al lavoro!”, esclamò Luigi seccato. “Sono stato tutto il giorno dietro al nuovo arrivato a spiegargli come riprogrammare le CPU dei cyborg. Vabbeh, almeno è un ragazzo sveglio”.
“Avete ancora cyborg? Credevo ci fossero solo robot ormai...”, bofonchiò Marco spiluccando un cosciotto.
“Non produciamo più cyborg”, rispose Luigi sedendosi e riempiendosi il piatto di purè e piselli, “ma quelli ancora funzionanti li abbiamo tenuti. Te lo dicevo anche l'altra volta: i costi dei materiali sono al ribasso e si spende meno a costruire robot ex-novo che a convertire esseri umani”.
“Da quando poi non si possono più usare i cadaveri...”, aggiunse Anna che nel frattempo aveva preso posto a capotavola e si era servita, “com'è il pollo ragazzi? A me non dispiace”.
“Uhm... buono, buono”, risposero in coro Luigi e Marco scambiandosi sguardi d'intesa.
“Eggià...”, continuò Luigi, “a parte i carcerati nessuno dà il consenso per farsi convertire”.
“E ti credo...”, fece Anna, “quelli lo fanno perché così li mettono all'aperto, ai lavori socialmente utili: scavare gallerie, sgombrare macerie...”.
“Oppure roba pesante”, intervenne Marco, “li usano nei programmi di pulizia spaziale: recuperare frammenti di asteroidi, rottami di sonde, astronavi, velivoli, vero ba'?”.
“Uhm”, asserì Luigi col capo trangugiando una cucchiaiata di purè.
“I cyborg sono un casino, troppi rischi, mantengono emozioni umane”, spiegò Marco. “Nella rivolta del duemilacentododici morirono quasi cinquemila persone. L'ho studiato oggi. Devo dare l'esame di storia, lunedì”.
“E' vero. I cyborg conservano sempre un minimo di volontà propria, non sei mai sicuro al cento per cento. Una reminiscenza dell'umano, così la chiama il mio supervisore”, disse Luigi, “anche se al posto del cervello hanno un computer, alla fine la sinergia col tessuto vivente gli dà sempre quel qualcosa di sballato, di astruso...”
“... di umano”, disse Anna.
Nel frattempo era calata la notte e la tempesta non accennava a diminuire. Lo scudo a elettroni garantiva un'assoluta insonorizzazione, ammutolendo il sinistro e furioso ululare del vento.
“Durerà almeno fino a domenica”, sospirò Anna cominciando a sparecchiare.
“Almeno si potesse stare a casa...”, sorrise Luigi, “con sti cosi del teletrasporto non si sfugge, non si salta un giorno... eh... beati gli antenati...”.
“Eggià”, fece Marco, “ho letto che una volta c'erano le malattie. E se ti ammalavi non andavi a lavorare, e nemmeno a scuola”.
“Si”, intervenne Anna, “Nella vecchia Terra. Fino al duemilaottantaquattro. Poi è iniziata la manipolazione genetica dei feti. Ho dato una sbirciata ai tuoi libri quando non c'eri”, ammiccò al figlio.
Marco sorrise. “A proposito di teletrasporto...”, iniziò, “volete sentire quello che studiavo? Così mi aiutate a ripassare, tanto mi sa che co sto tempo non si va da nessuna parte...”.
“Ok, ripetici la lezione!”, esclamarono in coro moglie e marito.
Marco sfiorò con la mano il sensore sulla parete e la finestra si oscurò.
“Dunque”, attaccò, “le basi per lo sviluppo del moderno teletrasporto, cioè non più di particelle subatomiche ma di esseri multicellulari, furono gettate nel duemiladodici con la scoperta del Bosone di Higgs, già teorizzato cinquant'anni prima, dal britannico Peter Higgs appunto. Fu scoperto in un centro di ricerca della città di Ginevra, nella vecchia Terra. Da lì a sessant'anni cadde un altro tabù su cui si erano arrovellati i fisici di tutto il mondo: la materia e l'energia oscura, che costituiscono il novantasei per cento dell'universo.
“Ma allora gli antichi erano degli asini... non sapevano un tubo”, scherzò Luigi.
“Eddai papà... fammi finire”, sbottò Marco non riuscendo a trattenere le risa.
“Dai, dai”, fece mamma.
“Allora... vado veloce se no non ci arrivo più... si scoprì che la materia oscura era composta essenzialmente di neutrini e tachioni e che altro non era se non energia oscura a cui il bosone di Higgs aveva conferito una massa.”
Anna accennò ad attivare la trasparenza delle finestre ma una smorfia di disappunto e delusione di Marco la fece desistere.
“Dicevo...”, riprese Marco sorridendo, “si scoprì poi che bombardando di raggi Beta i tachioni presenti nella materia oscura questi prendevano, ummhh... agganciavano la materia ordinaria, generando settanta TeV di energia”.
“Se non sbaglio era proprio quello il problema: ci voleva troppa energia, giusto?”, disse Luigi.
“Esatto! Quindi, una volta superato quell'inconveniente, visto che i tachioni sono più veloci della luce... sshhhh!”, Marco mimò il balenare di un fulmine, “proprio i tachioni divennero il mezzo su cui viaggiava la materia nel teletrasporto!”.
“Bravo!”, esclamò Anna, schiarendo la finestra sull'infuriare della tempesta. Nel buio la sabbia vorticava in gorghi fosforescenti.
“E quando fu inventato il primo aggeggio per il teletrasporto di esseri umani? Tipo quello che abbiamo qui fuori?”, chiese il padre.
“Fu inventato nel duemiladuecentotré da un ingegnere aerospaziale americano, Tom Riggs”.
Tutti e tre corsero col pensiero al dispositivo di fronte a casa: un anello di quarzo e platino alto venti centimetri, fissato al suolo da un sistema di compressione gravitazionale.

“Adesso ti interrogo io”, fece Luigi. Raccolse con circospezione il libro del figlio e sfogliò attentamente qualche pagina.
“Parlami del disastro che decretò la fine della vecchia Terra”.
Marco sorrise pregustando la trionfale spiegazione.
“Dopo l'invenzione del teletrasporto naturalmente tutte le grandi potenze erano consapevoli dell'enorme minaccia che questo rappresentava per i traffici commerciali”, iniziò, “sarebbero fallite tutte le compagnie aeree, non avrebbero avuto più senso i cantieri navali, tutte le infrastrutture: ponti, autostrade... se chiunque avesse potuto trovarsi all'istante in qualsiasi punto del pianeta. Vado avanti?”.
Sua madre aveva cominciato a sparecchiare e andava e veniva dalla cucina, il suo modo per dire che avrebbe seguito la conversazione in maniera più disinvolta.
“Si, si”, disse Luigi, “tira dritto, io ti ascolto senza interrompere”.
“Ok. All'inizio le macchine per il teletrasporto erano un parallelepipedo di un metro quadro per base, alto circa due metri e mezzo. Fino al duemilatrecento ne esistevano solo dieci al mondo, tutti di proprietà della Instant Voyager, una holding multimiliardaria di più compagnie di trasporto, per la maggior parte finlandesi e spagnole. Avevano impiantato uno di quegli apparecchi, si chiamava Flash Tremila, davanti alla loro sede centrale, a Helsinki. Quell'unità era collegata alle altre nove dislocate a Roma, Parigi, New York, Vienna, Madrid, Mosca... poi non ricordo... vabbeh, comunque... Questa Instant Voyager aveva il monopolio del Flash Tremila e stava studiando come espandersi a dismisura e moltiplicare all'infinito i profitti... e fu qui che successe il fattaccio. Sai cos'è un cronovisore?”.
“Si, l'ho visto al museo”, disse Luigi aggrottando la fronte, “è una sfera, non mi ricordo di cosa è fatta, è una sfera che ti fa vedere il passato e il futuro, giusto?”.
“Esatto. Fu inventata molto prima del teletrasporto, nel duemilacentouno. E' fatta di una lega di rame e berillio. Al suo interno viene ricreata una singolarità, un buco nero di circa venti centimetri che apre un varco nel tessuto temporale. E' collegata a un tastierino numerico con cui si imposta l'anno da rintracciare. Da quando si acquisirono sempre più conoscenze sull'energia oscura, si arrivò poi ben presto a manipolare il continuum spazio-tempo. Ovviamente nessuno doveva cambiare il passato, se no sai che casino con tutti i paradossi...
Nel duemilacentocinquantasette ci fu un'altra svolta importantissima: lo scienziato spagnolo Alejandro Hernandez dimostrò che era impossibile viaggiare nel tempo, ci si poteva teletrasportare solo attraverso lo spazio. Lo studio gli valse il Nobel per la fisica. Comunque... e arriviamo alla questione... nel duemilatrecentosessantacinque un'organizzazione terroristica denominata Nessun Domani, con l'aiuto di scienziati corrotti, riuscì a miniaturizzare il congegno del teletrasporto e a impiantarlo sottopelle. Con un semplice computer da polso era possibile impostare le coordinate del luogo dove materializzarsi.
Quello fu il punto di non ritorno. Bastava procurarsi un cronovisore, vedere quando il tal carico di denaro veniva portato in banca, quale scommessa sarebbe stata vincente, dove avrebbe cenato il boss rivale da far fuori... e il gioco era fatto! Presto detto, fu il caos totale, come puoi immaginare. Cinquanta criminali psicopatici e senza scrupoli misero a ferro e fuoco il pianeta, fu la Quarta Guerra Mondiale, dal duemilatreesessantasei al duemilatreesettantuno.
La Federazione Universale per la Sicurezza optò per una soluzione estrema. Radunò le migliori menti del pianeta e le evacuò qui. Quelli erano i nostri antenati.
La vecchia Terra fu distrutta il dodici agosto duemilatrecentosettantuno, con l'esplosione simultanea di dieci bombe Gamma.
Da allora fu proibito ogni dispositivo individuale o mobile per il teletrasporto. La Instant Voyager mantenne il monopolio e costruì solo congegni tipo il nostro”.
“Bravo! La sai benissimo!”, esclamò Luigi dando una leggera pacca sulla spalla al figlio.
Dalla cucina la madre si voltò e gli fece l'occhiolino “Vedrai che l'esame lo passi di sicuro!”.
“Speriamo che passi anche questa tempesta”, sorrise Marco.
Tutti e tre guardarono fuori. In lontananza un gigantesco aerodonte avanzava a fatica controvento, sbattendo goffamente le diafane membrane alari e sfidando la bufera col suo grido acutissimo e penetrante.

sabato 3 novembre 2012

Concorso "SU PER I MONTI"


"Gentile Concorrente,
il suo COMPONIMENTO è risultato finalista del Concorso  "SU PER I MONTI!"  ed è stato PUBBLICATO nella VII Raccolta Antologica della collana "Les Cahiers du Troskij Café", che sarà presentata SABATO 01 dicembre Monterotondo (Rm) alle ore 15.30 durante la manifestazione eno-letteraria "W I ROSSI" presso la BIBLIOTECA COMUNALE "P. ANGELANI"al Centro Storico di Monterotondo nell'ambito della Rassegna Culturale della Montegrappa Edizioni."

Evvvvaaaaiiiiiiii !!!!!! :-DDDDD