martedì 19 novembre 2013

Concorso "Schegge per un Natale Horror"



Votate i miei racconti sul sito di Letteratura Horror ! :-)


https://www.facebook.com/LetteraturaHorror?fref=ts

Finora le mie schegge in totale sono 19:

1) Il vaccino
2) Il ladro di bambini
3) Il cenone della vigilia
4) Buon Natale!
5) Babborg Natale 2.0
6) Il BOOM! degli acquisti
7) Amori proibiti
8) Natale mannaro
9) Trip di Santo Stefano
10) Torna papà, torna!
11) Natale meccanico
12) Pupazzo-ammazzo
13) Ispirazione imprevista
14)  Nella vecchia fattoria
15) Buone Fesss... te!
16) La messa di Natale
17) Scuolabus per l'inferno
18) L'elfo grigio
19) Progetto Sobek

martedì 1 ottobre 2013

PREMIO NAZIONALE LA LUNA E IL DRAGO V EDIZIONE - IL VIAGGIO


"Gentile Autore la presente per comunicarLe che il Suo racconto è stato selezionato dalla Giuria e inserito nell'Antologia dal titolo: "Il Viaggio metafora di vita", realizzata dal Caffè Letterario La Luna e il Drago"

domenica 14 luglio 2013

I finalisti di "Fantasia 3000"

Altra piccola soddisfazione, dal concorso "Fantasia 3000".
 
Il mio racconto è "L'unicorno che cacciava alieni".
 
"[...] Data la selezione pesante, mi permetto inoltre di segnalare alcuni racconti meritevoli che, pur non essendo entrati a far parte dei finalisti, si sono giocati il posto fino all’ultimo. Anche agli autori di questi testi vanno dunque i complimenti della giuria: Aghi, La goccia, L’unicorno che cacciava alieni, Marianna va in Irlanda, Orsi e donne, Piombo.
Il motivo per cui ho menzionato questi racconti non è dare un semplice “contentino”, ma un invito sincero a continuare per questa strada: proseguendo di questo passo, infatti, magari anche in iniziative esterne al Verdecammino, potrete ottenere grandi soddisfazioni. :)"

http://verdecammino.forumcommunity.net/?t=54750775#entry383136064

venerdì 28 giugno 2013

Il tunnel delle Fiabe Sbagliate

Maria assistette alla scena allibita, con le lacrime agli occhi.
“Tra i biglietti venduti non risulta quello di sua figlia”, sillabò il poliziotto con voce monotona e distaccata.
La donna balbettò qualcosa tentando istintivamente di richiamare i due agenti che stavano salendo in auto.
“Sara aveva scritto il nome sul suo biglietto”, bisbigliò, “un biglietto rosa...”
Ma quelli misero in moto senza profferir parola e l'auto di pattuglia riprese apaticamente la strada fino a sparire all'orizzonte.
Non poteva crederci. Non voleva andarsene ma non sapeva cos'altro fare, a quel punto.
Con la coda dell'occhio vide il turbante azzurro dell'ipnotizzatore scomparire dietro le gabbie dei leoni.
Il giostraio sputò lo stuzzicadenti e le rivolse un ghigno sprezzante. Si passò le mani sudice sulla canottiera e rimase immobile a fissarla. “Vede signora, sua figlia non è mai entrata in quel tunnel. Non l'ho mai vista. Si sbaglia, gliel'ho già detto”, la incalzò.
Maria sentì montare una vampata di collera. Poi qualcosa si mosse fra i cespugli intorno, un verso proruppe dalle scure chiome delle querce e d'un tratto realizzò di essere sola. In un bosco, di notte. Sola di fronte a un losco individuo.
La luna era offuscata. Ogni tanto una folata calciava via cartacce e lattine fra l'erba spelacchiata. Lo sguardo del giostraio mutò. Non era più beffardo, era minaccioso ora. “Vada via”, diceva quello sguardo, “non c'è niente che le sia amico qui”.
E difatti non c'era. Maria tornò al parcheggio quasi di corsa. La sua monovolume le sembrava l'unico posto sicuro, al momento. Aveva bisogno di pensare senza allontanarsi da lì.
Vide le luci del circo spegnersi una dopo l'altra. Sagome grigiastre e curve spingevano le gabbie sotto i tendoni. Finché tutto fu silenzio.
Raccolse il peluche della figlia dal sedile a fianco: una tartaruga gialla con due enormi occhi azzurri da cartone animato. E si sciolse in un pianto convulso.
Sara... scomparsa. Gliel'avevano rapita. Cosa fare se nemmeno la polizia poteva aiutarla? Da chi andare?
Accese il motore sgasando e partì sgommando, coi fari che bucavano la boscaglia.

“Maria... dai, lo sai, hai visto che ore sono? Ti ho detto di non chiamar...”
“Sì sì lo so. Non è per noi. E' per Sara.”
Sandro si riscosse e si staccò dalla parete mettendosi in ascolto bello dritto. “Cos'è successo a Sara?”
“Non al telefono. Vieni a casa mia. Verrei lì io, ma c'è Livia...”
“La mia compagna fa parte della mia famiglia. Devi accettarlo, Maria. Il giudice ha detto...”
“Non m'importa adesso! Nostra figlia è...” urlò Maria. “Scusa...”, continuò poi più pacata. “Scusa. Sì sì, lo so. Tranquillo. L'ho superata ormai. E' giusto che tu faccia la tua vita. Doveva andare così. D'altronde i matrimoni si sfasciano tutti i giorni, no? Comunque, non è questo. Sara...”
“Si è fatta male? Dimmi!”, esclamò Sandro preoccupato.
Dall'altro capo del telefono giunse un sospiro.
“Vieni qui, Sandro. Ti racconterò tutto.”

Entrò trafelato, in pantaloni del pigiama e maglietta bianca. Aveva ancora una copia delle chiavi, anche se a breve avrebbe dovuto restituirla. Maria lo aspettava seduta al tavolo con due tazze di caffè fumanti. Quando Sandro si accomodò iniziò subito a raccontargli della serata.
Quello strano circo. Sara tutta entusiasta all'idea di vedere i clown, e i leoni e le giraffe.
Quel maledetto tunnel delle “Fiabe Sbagliate”. Sara che entrava e che non sarebbe più uscita.
Il giostraio equivoco. I poliziotti in trance che fingevano di sfogliare una mazzetta inesistente di biglietti, alla ricerca di quello rosa con su scritto “Sara” e un cuoricino...
L'uomo più forte del mondo che aveva sollevato un elefante e demolito un'auto a calci e pugni.
E sembrava tutto vero. Il mago che aveva “clonato” un volontario dal pubblico.
“Erano gemelli. D'accordo con quelli del circo... mettono dei complici sugli spalti”, obiettò Sandro.
“Uno guardava l'altro come fosse un fantasma. E l'altro si guardava le mani e si toccava come stupito di essere al mondo, pallido come un morto. Dovevi vedere Sandro... dovevi esserci... sembrava tutto vero. Troppo vero...”, disse Maria con un filo di voce e gli occhi sgranati.
Sandro rimase in silenzio, sorseggiando il caffè giusto per non starsene con le mani in mano.
“L'avranno già portata via. Chissà dove... Cosa possiamo fare?”, implorò Maria.
“Se non sbaglio il circo riparte domani l'altro, giusto?”
Maria annuì.
“A quel che mi dici la polizia è fuori gioco. Allora stanotte ci vado io.”
“Vengo anche io.”, esclamò Maria.
“A te ti conoscono, invece a me anche se mi beccano non possono collegarmi a Sara. E' meglio così. Se è scomparsa in quel tunnel, mi ci intrufolerò. Non è passato molto tempo, magari è ancora lì dentro. E poi tocca a me: è pericoloso e sono suo padre.”
Le sorrise, fermo sull'uscio, col fucile a tracolla. I loro sguardi si incontrarono come non succedeva da anni.

Acquattato fra i cespugli Sandro ispezionava lo spiazzo del circo col binocolo a infrarossi, un souvenir di quando era nell'esercito. Nessuna attività. Il cielo era plumbeo e illune. Non tirava un filo d'aria. Giunse indisturbato fino all'ingresso, due alti pali di legno che reggevano un telone su cui campeggiava in giallo la scritta “CIRCO”.
Strano che non ci fosse un nome o un cognome. “CIRCO” e basta.
Imbracciò il sovrapposto1, tenendo occhi e orecchie ben aperti. Si aspettava di venir assalito da un branco di leoni o dall'uomo forzuto che gli scagliava contro un fuoristrada; o da un gruppo di clown inquietanti che piroettando e saltando gli lanciavano una pioggia di coltelli.
Ma non successe nulla di tutto questo. Sotto i tendoni artisti e animali dello spettacolo ronfavano all'unisono.
A un tratto, mentre si guardava intorno pensieroso, gli saltò all'occhio: il tunnel delle “Fiabe Sbagliate”, dove la parola “Sbagliate” era stata aggiunta a mano, con la vernice che ancora colava, mentre “Fiabe” era stampata in eleganti arzigogoli dorati. Proprio come descrittogli da Maria. L'ingresso era incustodito.

All'interno del tunnel lo spazio si dilatava in modo abnorme, sfociando in un bosco non dissimile da quello all'esterno, con alberi ad alto fusto cupi e spettrali.
Il trenino, abbandonato, era arrugginito e danneggiato in più punti. Non c'erano rotaie su cui potesse scorrere.
Sandro impugnò saldamente il fucile e si addentrò , spiato da mille occhi invisibili e dai sussurri del vento fra le fronde.

Una scia rossa saettò davanti a lui, facendolo trasalire. Intravvide un mantello volare a filo d'erba, rapido come un battito di ciglia. Con circospezione ne seguì le tracce fino a una casetta in legno. Dal comignolo un rivolo di fumo grigio si sfilacciava pigramente sotto una luna diafana.
Attirato da un brusio costante si accovacciò sotto la finestra. Due voci gli giungevano chiare.
“Nonnina, che orecchie grandi che hai...”
“Per sentirti meglio, nipotina mia...”
“Nonnina, ma che occhi grandi che hai...”
“Per vederti meglio, nipotina mia...”
“Nonnina... lo so che sei il lupo!”
Poi dentro si scatenò il finimondo: urla, latrati, tonfi, roba che andava in pezzi...
Sandro sfondò la finestra e irruppe.
Quella che sembrava una ragazzina con la mantellina scarlatta si drizzò sul letto, staccandosi dall'ammasso peloso, con la bocca e il viso lordi di sangue.
“Filetto di lupo alla tartara, vuoi favorire?!”, gli urlò contro trasfigurata in un ghigno animalesco e demoniaco.
Sandro si precipitò fuori spalancando la porta con un calcio e mettendosi a correre a perdifiato.
La ragazzina intanto si era ributtata a capofitto sulle viscere della carcassa, saziandosene perversamente.

Ansimando, seduto sotto un albero, Sandro guardava ancora in direzione della casetta, incredulo e scioccato.
“Presto che è tardi presto che è tardi!”
Un coniglio trotterellava verso di lui controllando ossessivamente un orologio da taschino.
Avanzava in posizione eretta. Indossava un elegante panciotto grigio, portava un monocolo e calzava un cappello a cilindro.
“Presto che è tardi presto che è tardi!”, ripeteva zampettando.
D'un tratto una fucilata gli fece saltare la testa, troncando a metà anche la frase.
Sandro sussultò. Si mise in piedi, ma stando ben attento a non sporgersi dal tronco dell'albero.
Una bambinetta con le treccine avanzava a passo spedito, con una doppietta aperta appoggiata sulla spalla. Sulla maglietta spiccava la scritta “Alice rules”.
“Adesso non è più tardi, hai tutto il tempo che vuoi, schifoso!”, esclamò la ragazzina sputando sulla testa del coniglio rotolata a qualche metro dal corpo martoriato.

Sandro calpestò inavvertitamente un ramo secco. La bimba ricaricò la doppietta in un lampo e fece esplodere una nuvola di corteccia. Sandro si gettò a terra finendo allo scoperto.
“Ah ah tana per te! Chi diavolo sei?”, berciò la marmocchia.
Sandro non riuscì a rispondere nulla .“Alice nel paese delle meraviglie...”, sussurrò pensando ad alta voce.
“Io sono Alice, ma questo è lo stronzo paese delle meraviglie!”, urlò puntandogli contro il fucile.
“Guarda, c'è lo Stregatto!”, gridò Sandro indicando alle sue spalle.
“Dove cazzo è?”, farfugliò Alice pronta a sfracellarlo di pallettoni.
Approfittando dell'attimo di distrazione le fu addosso. Con una mano bloccò la doppietta puntandola a terra e con l'altra le sferrò un tremendo diretto in pieno viso.
Alice cadde all'indietro senza fare un fiato, col naso ridotto a una poltiglia sanguinolenta e la mascella probabilmente fratturata.

“Papà papà!”, Sara gli corse incontro sbucando da un cespuglio e gli saltò al collo.
Sandro la strinse forte, chiudendo gli occhi. “Sara...! Dov'eri finita? Cos'è successo?”
“Durante il giro sono caduta dal trenino”, spiegò in lacrime. “Andava veloce, prendeva le buche, saltava... sono caduta fuori. Ho trovato una casetta e mi sono riposata un po' lì dentro. Poi sono arrivati tre orsi, mi sono spaventata e sono fuggita nel bosco. Ho sentito gli spari, ti ho visto e... papà che hai fatto? L'hai uccisa?!”, disse poi singhiozzando più forte, guardando ora Sandro ora Alice riversa a terra.
“No... ehm...”, farfugliò Sandro, “ diceva le parolacce. Ecco. Diceva un sacco di parolacce. Non si dicono le parolacce... d'accordo piccola?”
Sara annuiva, bianca come un lenzuolo, gli occhi sbarrati e colmi di paura.

E così uscirono dal tunnel, Sara in braccio al papà, e senza incontrare altri ostacoli tornarono a casa da Maria, che li accolse piangendo di gioia.
Il giorno dopo quel misterioso circo scomparve senza lasciare traccia e non se ne seppe più nulla.
Maria e Sandro si riavvicinarono. Lei gli permise di farle visita più spesso, con la scusa di sbrigare piccole riparazioni domestiche. Da cosa nacque cosa e... vissero per sempre felici e contenti.
Un po' meno Sara, che a causa degli incubi (sognava suo padre che fracassava teste di bambini) divenne dipendente dagli psicofarmaci. In compenso però non disse mai più una parolaccia in vita sua.

1Fucile da tiro, con le canne una sotto l'altra, a differenza della doppietta, che ha le canne una di fianco all'altra.

Alan, il crononauta

2007-BA. Ridottissima serie di numeri e lettere. Una sigla innocua, il posto di un parcheggio, la denominazione di una proteina, la classificazione di un libro in biblioteca.
Ma 2007-BA era il nome della morte. Un asteroide. Per l'ennesima volta il destino del pianeta dipendeva da un pezzo di roccia.
Un meteorite aveva originato il nostro satellite, la Luna; un altro aveva provocato l'estinzione dei dinosauri. Col susseguirsi degli studi, dei calcoli e delle simulazioni si ipotizzò inoltre che anche dietro le glaciazioni o gli sconvolgimenti climatici più eclatanti ci fossero sempre degli asteroidi; senza contare gli ettari di foreste bruciate o i villaggi semidistrutti.
E adesso questo. 17 Dicembre 2116: la data di scadenza della Terra. Fra tre settimane.
La tecnologia non permetteva di disintegrare il meteorite in sicurezza: anche impiegando missili a testata nucleare si sarebbe sbriciolato in frammenti più piccoli ma ugualmente letali, una terrificante pioggia di fuoco e fiamme.
L'evacuazione non era un'alternativa perché con un diametro di 20 Km e un peso di 2.000 miliardi di tonnellate la devastazione sarebbe stata totale, sia che impattasse al suolo che in mare.
Si stimò che sarebbe caduto nell'Italia Centrale, alla velocità di 290.000 Km/h.
L'unica via di scampo non era quindi nello spazio, bensì nel tempo.
A differenza dei viaggi intergalattici, rimasti pura utopia, il viaggio nel tempo era possibile.
La notizia non fu mai divulgata e nessuno ne fece mai uso ufficialmente. Il Governo si adoperò per insabbiare l'avvenimento e mantenere una segretezza pressoché assoluta. Per questo non sono note le circostanze esatte in cui si svolse l'esperimento, né si conoscono l'inventore del dispositivo o i membri dell'equipe che lavorò al progetto.
Ora però quello stesso Governo, (composto dai leader delle dieci maggiori Potenze), riunito in un bunker sotterraneo attrezzato di ogni lusso e comodità, stava pianificando una trasmigrazione temporale.
Inizialmente si pensò di trasferire un ristretto numero di persone in un punto imprecisato del futuro. Molti obiettarono che non fosse moralmente corretto salvare pochi prescelti (fossero anche le menti più brillanti), lasciando morire sciami di moltitudini inconsapevoli. Gli scienziati sollevarono dubbi anche sulla direzione da prendere lungo la linea temporale: non più nel futuro, magari un futuro di polveri e miasmi letali da respirare per secoli o milioni di anni, ma nel passato, che sembrò d'un tratto più a portata di mano, per così dire, più vicino e più comodo, in quanto noto.
Il cronotraveler, il dispositivo per viaggiare nel tempo, era individuale, delle dimensioni e delle sembianze di un orologio da polso. Ne esistevano un centinaio. Si digitava gg/mm/ (+ o - ) aaaaaa (giorno, mese e anno, prima e dopo Cristo) e premendo il pulsante invio si veniva spediti alle coordinate indicate. Si poteva anche memorizzare una data di default verso cui si veniva indirizzati premendo il pulsante reset.
Restava da testarlo a dovere e individuare l'epoca più opportuna dove trasferirsi.
E proprio di questo si stava occupando il nostro protagonista, il viaggiatore designato che chiamerò Alan. Scelsero per iniziare l'anno 1975 D.C., un'epoca recente e quindi avanzata tecnologicamente, e relativamente tranquilla in quanto posteriore al secondo conflitto mondiale. Ogni volta poi, al sopraggiungere di 2007-BA sarebbero tornati indietro. Avevano tre settimane per trovare l'anno più opportuno. Impostarono come default il giorno corrente, dotarono Alan di armi e kit di pronto soccorso e l'avventura iniziò.

15/06/001975. Il problema della macchina del tempo era che non si sapeva mai dove ti avrebbe teletrasportato: in fondo al mare, in una grotta al centro della Terra, in mezzo alla strada nell'ora di punta; in America, Asia, Oceania, sospeso in aria, in caduta libera dalla ionosfera... Per fortuna impostando il default si poteva fissare, oltre alle coordinate temporali, anche il luogo corrente, il posto dove ci si trovava in quel momento: in questo caso il laboratorio del bunker segreto nell'anno 2116, un luogo sicuro dove tornare.
Invio. Alan venne smolecolarizzato e si ricompose con un tenue bagliore, perturbando l'aria circostante. Al suo apparire uno strano quadrupede trasalì e rimase impietrito, scomparendo poi nella boscaglia con rapidi balzi. Non riuscì a inquadrarlo nello scanner ma le macchie bianche sul manto marrone gli suggerirono che doveva trattarsi di un daino, un mammifero estinto da decenni che aveva visto nell'enciclopedia olografica.
Con un semplice tocco attivò il localizzatore che aveva al polso: Cesane, monti – Pesaro Urbino – Marche – Italy. Era in mezzo a un bosco, non scorgeva sentieri né anima viva. Armò la pistola disgregatrice e procedette in esplorazione. D'improvviso si sentì percorso da potenti vibrazioni e da un languido senso di nausea. Sul display del cronotraveler al polso sinistro lampeggiava in rosso la scritta “failure”.
In preda al panico premette e ripremette il tasto reset ma lo scenario non cambiava. Le vibrazioni e il lampeggiare continuavano. “Failure”, finché la macchina del tempo emise tre forti bip e lo smaterializzò sfilacciandolo nel vortice spazio-temporale.

Atterrò malamente su una landa brulla e desolata, cadendo da circa due metri, per fortuna senza conseguenze. Il terreno era coperto da una polvere grigiastra e ampi crepacci si aprivano qua e là.
All'orizzonte si stagliava un imponente muro verde: vegetazione, alberi probabilmente.
Cercò di svegliare il localizzatore ma il display era morto. Il cronotraveler era sempre in “failure”.
Non compariva nemmeno il tastierino per immettere una data.
Il visore sul casco captò del movimento e proiettò sulla visiera direzione e distanza. Una croce al centro di un cerchio lampeggiava e bippava sempre più insistentemente quando ci si avvicinava al bersaglio, mentre un calcolatore digitale incrementava o diminuiva la distanza del soggetto o dell'oggetto in movimento. Il sibilo divenne continuo e penetrante in direzione dei boschi all'orizzonte. Comparve un frenetico conto alla rovescia che partiva da 900 metri.
800-700... Imbracciò il fucile laser che teneva a tracolla e ne azionò le cariche fotoniche.
600... sentiva la terra tremare sotto i suoi piedi.
500... le fronde si agitavano nella boscaglia in lontananza.
Una sagoma scura apparve all'orizzonte. Zumò. Ancora. Ancora. 5X. Un tirannosauro stava correndo verso di lui. Aveva qualcosa sulla schiena. Zoom. Non era qualcosa, era qualcuno. Un uomo, un ominide. Una sella coi finimenti.
Alla velocità con cui procedeva l'avrebbe raggiunto in pochi secondi. Fece rientrare la visiera e puntò il fucile ormai completamente carico.
L'enorme rettile si fermò a pochi metri da lui, impennandosi alla tirata di redini del cavaliere e spalancando le fauci in un ringhio cavernoso e brutale.
L'ominide, di carnagione olivastra, aveva il viso tozzo e con un forte prognatismo. I capelli erano neri, radi e lunghi e brandiva una lancia dal manico in legno e dalla punta in selce.
Alan avrebbe potuto carbonizzarli all'istante, ma esitò un attimo di troppo. Non aveva mai ucciso nessuno, e in più era sconcertato da quella visione: un conto era osservare la proiezione di un T-Rex su un olobook di storia e un conto era trovarselo a un palmo dal naso.
L'ominide scagliò la lancia. Alan la schivò scartando di lato, ma non poté evitare che il sauro gli triturasse un fianco sferrando un morso con insospettabile velocità.
Accecato dalla vista delle carni straziate e sanguinanti, fece fuoco. Un raggio di luce rossa disintegrò i due riducendoli a un cumulo di cenere. Il morso gli aveva strappato via mezzo addome. Si accasciò a terra tenendosi la pancia. Le viscere eruttavano come serpenti a molla compressi in una scatola, schizzandogli sulla mano copiosi fiotti caldi. Gettò il fucile, si sfilò dalle spalle lo zainetto e tirò fuori il kit d'emergenza.
Ebbe un mancamento, la vista si affievolì. Frugando affannosamente estrasse un cilindro nero grosso quanto un candelotto di dinamite. Premette il bottone all'estremità finché un led rosso non divenne verde. Ricacciò dentro le budella urlando a squarciagola e spruzzò sulla ferita una patina gelatinosa. Il medi jet agiva in trenta secondi. Era un rigeneratore organico. Nebulizzava nanoparticelle combinate a molecole di DNA, guarendo e ricreando i tessuti danneggiati. Il meccanismo si ispirava alle stampanti 3D del XXI secolo, usate anche per sintetizzare cibo nei paesi africani ai tempi della Grande Carestia del 2063.
Si alzò in piedi rimirando la miracolosa guarigione, tastandosi quasi con riluttanza la porzione d'addome da cui poco prima fuoriusciva una cascata di visceri sanguinolenti. Ma non poté assaporare in pace quella sensazione: il cronotraveler aveva deciso che era tempo di saltare di nuovo nella centrifuga.

Azionò prontamente la chiusura ermetica del casco e la riserva di ossigeno iniziò a entrare in circolo. Annaspava per riemergere, fortemente impedito dalla tuta spaziale che però almeno lo isolava termicamente. L'acqua del fiume doveva essere gelata. Appena fu a galla fece rientrare la visiera, respirando a pieni polmoni e gettando occhiate tutt'intorno. Lo sovrastava un maestoso castello. Il ponte levatoio era alzato e si ergeva ripiegato proprio di fronte a lui. Scorse una macchia scura farglisi incontro. Alla sua destra occhieggiò una fila di squame. Si alzò qualche spruzzo. Disintegrò il primo coccodrillo proprio mentre gli saltava addosso a fauci spalancate. Le acque ribollirono al contatto col raggio laser, richiamando altre frenetiche chiazze subacquee. Alan sparò all'impazzata intorno a sé finché la spia di alimentazione della pistola iniziò a lampeggiare. Brandelli d'alligatore galleggiavano ovunque: tranci di ventri mollicci e verdi squame legnose.
Ansimando si issò sull'argine, lasciandosi cadere sull'erba soffice. Doveva calmarsi e riprendere fiato. Nuvole spumose come meringhe attraversavano calme il cielo.
Il sensore di movimento non segnalava pericoli. Il cronotraveler non dava segno di vita, col display penosamente muto e i pulsanti che suonavano ciocchi; ma si sarebbe rianimato all'improvviso, lo sapeva, per gettarlo a casaccio in qualche spirale dimensionale.
Sospirando si rimise in piedi. Il ponte levatoio, sulla facciata del castello, sembrava una bocca e i finestroni affrescati erano gli occhi. Sui due torrioni ai lati sventolavano bandiere gialle e blu con un leone rampante incorniciato da uno scudo. In mezzo correva una fitta merlatura. Non c'era passaggio di sentinelle nei camminamenti di guardia. Azionando il jet pack sorvolò in un batter d'occhio l'anello d'acqua infestata e atterrò molleggiando davanti al ponte levatoio, quell'immensa bocca lignea imbronciata. Fece il giro delle mura, quando un grido stridulo lo costrinse ad alzare lo sguardo.
Siete dunque giunto a salvarmi, prode cavaliere?”
Una fanciulla meravigliosa si sbracciava dall'alta torre, calando dalla finestra una lunghissima treccia bionda che arrivava quasi fino a terra. La inquadrò nel visore e ingrandì: gli occhi di un ammaliante turchese, le guance accese di tenue rossore. Una sensualità acerba e irresistibile.
Volle rispondere qualcosa ma fu ricacciato furiosamente nel vortice e risputato in un altro prato, in un altro tempo. Questo però era un giardino, a giudicare dalla cura delle siepi e del manto erboso. Un giardino cosparso di variopinti alberi da frutto e gruppi di cespugli bassi ingemmati di more e lamponi. Una brezza leggera accarezzava le chiome e il fogliame, spandendo un aroma vellutato di vaniglia e miele. Nella donna che gli veniva incontro credette di riconoscere la fanciulla del castello, tanto era bella; di una bellezza surreale, fiabesca. E per di più completamente nuda. I capelli castani ricadevano in ampie volute sulle spalle aggraziate e sui seni bianchi e morbidi. La donna fissava Alan meravigliata dello strano abbigliamento, ma non impaurita. Nel suo sguardo si leggevano curiosità e innocenza.
Io sono Eva”, gli disse avvicinandosi fino a toccare un lembo della tuta spaziale. Ne saggiava la consistenza e disorientata passava a paragonarla alla sua graziosa nudità.
Io sono Alan”, bisbigliò incredulo. Stava per aggiungere “piacere di conoscerti”, ma la frase gli sembrò quantomai fuori luogo e gli si strozzò in gola.
Nel frattempo, come se seguissero la padrona, tantissimi animali, delle specie più diverse, accorrevano dai dintorni e si avvicinavano tranquillamente. C'era qualcosa di insolito. Nell'aria aleggiavano quiete profonda e una serenità quasi inebriante. Il leone non bramava la gazzella che gli saltava leggiadra al fianco, la gazzella non si preoccupava del leone che ruggiva sommessamente. Ed era lo stesso fra tigri e stambecchi, tra leopardi e conigli, tra orsi e volpi. Arcobaleni nascevano all'improvviso fra un laghetto e l'altro, rimbalzando nelle fontane adorne di statue.
Dove siamo?”, domandò Alan.
In risposta udì dei passi giganteschi alle sue spalle. Allibito si voltò e prese a far scorrere lentamente lo sguardo sui sandali ciclopici, su per le gambe, lungo il saio bianco fino al cordone stretto in vita che si perdeva fra le nuvole...
Una voce echeggiò cavernosa e perentoria, ma rassicurante e salvifica al tempo stesso.
Questo è il Paradiso Terr...”
E di nuovo tutto per Alan si perse nei frammenti di quel vorticoso fagocitare. Come una scheggia impazzita turbinava nel tunnel psichedelico tempestato di lampi e scariche elettriche, attendendo sconsolato la prossima meta.

Trascorsero così ancora sei lunghi mesi, spesi a vagare soffertamente per epoche remote e future, in un peregrinare insensato e sfibrante. Il cibo in pillole si stava esaurendo, ne aveva al massimo per un paio di settimane. Aveva imparato che la sua tecnologia era impotente contro la magia e gli incantesimi: se l'era vista brutta nel reame di elfi e fate, quando, scambiatolo per un invasore, per poco non l'avevano tramutato in rospo; per fortuna la regina Liael aveva indovinato le sue pacifiche intenzioni e l'aveva risparmiato, regalandogli anche un sacchetto di monete d'oro. Di ritorno nel suo mondo sarebbe stato ricco. Se mai fosse tornato.

Un bel giorno, nell'ottobre del 1944, mentre si trovava in Germania sotto i bombardamenti, il cronotraveler funzionò di nuovo. Così, di punto in bianco, accadde e basta: premette reset per la milionesima volta, non sperandoci nemmeno più, e invece si ritrovò nel laboratorio da dove era partito sei mesi prima. Solo che era deserto. Il cronotraveler aveva sbagliato di qualche minuto. Doveva approfittarne. Rubò un altro cronotraveler dalla cassaforte a parete: come alcuni degli scienziati coinvolti nel progetto conosceva la combinazione, anche se nessuno avrebbe dovuto. Sentì dei passi in corridoio. Di sicuro era l'altro se stesso, con tutti i colleghi, che si accingeva a lanciare l'esperimento da lui appena concluso. Su un foglio scrisse in tutta fretta, a caratteri molto grandi: “VA BENE IL 1975. BUONA FORTUNA. ADDIO. ALAN” e lo sistemò sotto il monitor del pannello di controllo centrale. Appoggiò sopra la scrivania anche il gruzzoletto di monete donatogli dalla regina delle fate. Sarebbero servite di certo più a loro che a lui. Senza farsi notare sgattaiolò fuori dalla stanza e accovacciato sotto l'ampia vetrata li sentì vociare confusamente a proposito del suo messaggio e dell'oro. Strisciò dentro un altro laboratorio, fortunatamente vuoto anche quello.
Ogni cronotraveler conteneva una scatola nera che registrava tutte le coordinate spazio-temporali raggiunte. Anche se il display era fuori uso, forse le informazioni erano state conservate. Collegò il dispositivo a un elaboratore diagnostico e soffocò a stento un urlo di gioia quando sullo schermo iniziarono a scorrere righe e righe di giorni, mesi e anni. Trasferì i dati nel nuovo cronotraveler appena rubato, scelse la destinazione e dette invio.

Prode cavaliere, siete dunque tornato per salvarmi?”, gridò la fanciulla dalla lunghissima treccia, prigioniera nell'alta torre.
Invero sì, madamigella!”, esclamò Alan azionando il jet pack e librandosi in volo fino alla sua finestra.
Non temete mia signora, vi salverò io. Reggetevi a me”, disse mentre la teneva stretta, sospesa per aria.
Io sono Alan. Qual è il vostro nome di grazia, mia signora?”
Raperonzolo”, rispose spaventata.
Bene, Raperonzolo, fidatevi di me”, disse Alan impostando di nuovo il cronotraveler e sparendo con lei nel gorgo temporale.

Coraggio Eva... assaggiala! E' buonissima vedrai...”, sibilò il serpente.
Eva si guardava intorno perplessa, cercando Adamo per chiedere consiglio. Incalzata dal serpente alla fine si decise. Accostò con titubanza il pomo rosato alle labbra. Al momento del morso però gettò un grido, osservando la mela sgretolarsi in uno sbuffo di fumo, colpita da un accecante raggio rosso.
Ehi tu! Chi sei, cosa credi di fa...”, urlò il serpente ma Alan lo fulminò con un altro colpo di pistola.
Grazie straniero, per un pelo!”, tuonò il gigante in sandali e saio accorrendo trafelato con Adamo al seguito.
Come ti chiami e chi è la fanciulla?” continuò la possente voce da sopra le montagne.
Io mi chiamo Alan, Signore, e questa è la mia ragazza, Raperonzolo. Volevamo chiederLe il permesso di stabilirci qui. Le giuro che siamo entrambi brave persone e seguiremo i Suoi insegnamenti senza disubbidire”, esclamò guardando Raperonzolo che annuiva entusiasta.
Ti credo Alan. So che siete giovani di buon cuore. In virtù di quello che hai appena fatto, concedo molto volentieri a te e alla tua ragazza di vivere qui. In fondo due coppie sono meglio di una. C'è spazio a sufficienza per i figli che vorrete avere, e per i figli dei figli, e i figli dei figli ancora...”

lunedì 24 giugno 2013

FANTASIA 3000 - I selezionati della prima fase

Gentile utente del Verdecammino,

ti segnaliamo che sono stati resi noti i titoli dei racconti che hanno superato la prima fase del contest a premi "Fantasia 3000".
http://verdecammino.forumcommunity.net/?t=54587453

Il mio unicorno continua a cacciare alieni... :-)

giovedì 13 giugno 2013

"CHI HA UCCISO NINA?" - Raccolta Antologica della collana "Troskij Noir"


Gentile Concorrente,
il suo RACCONTO è risultato finalista del Concorso  "CHI HA UCCISO NINA?" ed è stato PUBBLICATO nella I Raccolta Antologica della collana "Troskij Noir", che sarà presentata SABATO 06 luglio Monterotondo (Rm) dalle ore 18.30 durante la manifestazione cino-letteraria "SOIR en NOIR!" presso l'Ass. Cult. "L'ANGOLO DI AMELIE", via Nazario Sauro, 48 (Centro Storico di Monterotondo) https://www.facebook.com/angolodiamelie L'Angolo di Amelie - Cineclub, Music & Theatre

domenica 3 marzo 2013

Altra piccola soddisfazione!


Gentile Concorrente,
il suo COMPONIMENTO è risultato finalista del Concorso  "MON AMOUR" ed è stato PUBBLICATO nella VIII Raccolta Antologica della collana "Les Cahiers du Troskij Café", che sarà presentata SABATO 06 aprile Monterotondo (Rm) dalle ore 15.30 durante la manifestazione eno-letteraria "W I ROSSI" presso la BIBLIOTECA COMUNALE "P. ANGELANI"al Centro Storico di Monterotondo nell'ambito della Rassegna Culturale della Montegrappa Edizioni.

giovedì 28 febbraio 2013

Aldilà

Il pulviscolo danzava nel fascio pallido che ricadeva sul tavolo di legno spesso e grezzo. Fuori dalla finestra le chiome degli alberi erano squassate dalla tormenta. Nella penombra scorse diverse cornici appese alla sinistra del camino in pietra. Cercò di sollevarsi ma una fitta alle costole lo costrinse a un urlo strozzato. Sollevando le spalle notò che qualcuno gli aveva steccato la gamba. Gli balenò l'osso che sbucava da sotto il ginocchio e la sensazione di dolore lancinante. Quando muoveva gli occhi le tempie sembravano esplodere, come se gnometti fuligginosi e barbuti gli demolissero la scatola cranica a colpi di mazza e piccone. Con cautela si passò le dita sulla fronte e sentì una fasciatura.

Il portone si spalancò e un refolo di nevischio turbinò dentro.
«Oh, ciao. Ti sei ripreso.» Una sagoma alta e sottile irruppe reggendo una fascina di legnetti. Batté gli stivali sul pavimento fragorosamente, seminando una distesa di tocchetti bianchi.
«Chi sei? Dove mi trovo?» chiese il ferito con un filo di voce.
Il suo ospite appoggiò la legna vicino al camino e abbassò il cappuccio di pelliccia.
Una cascata di capelli si riversò sulle spalle. Erano quasi biondi, intervallati da ciocche più scure.
«Mi chiamo Luca. E questa è casa mia. Ti ho trovato in quel crepaccio e ti ho portato qui.»
«Io sono Francesco. Grazie mille per la gamba e per...» disse indicandosi le bende sul capo.
«Ho cercato di curarti come potevo... non è granché ma per adesso ti devi accontentare. I soccorsi non ti ripescano finché dura questo tempaccio. Ho già chiamato.» E indicò distrattamente una vecchia radio trasmittente polverosa e arrugginita.
Mentre Luca armeggiava per ravvivare il fuoco, la luce della fiamma dardeggiava sulle cornici.
«Sono i tuoi genitori?» chiese Francesco.
Le foto in bianco e nero ritraevano una coppia di vecchietti sorridenti: seduti su un ceppo in un prato fiorito, mentre passeggiavano in riva al mare o davanti a una tavola imbandita.
«Potresti avere un'emorragia interna» glissò Luca «Dovresti andare subito in ospedale, ma la città è a venti chilometri e io non ho una macchina. Vivo qui da solo.»
«Quelli siamo io e mia moglie», esclamò dopo qualche istante, esitando.
«Metto su il tè.» aggiunse. Dopodiché fece una pausa e sospirò: «Va bene, viste le circostanze voglio raccontarti tutto.» Prese uno sgabello e si avvicinò al letto.
Francesco guardava ora le foto ora Luca, con espressione attonita e vagamente divertita.

«Mi sono trasferito qui tre anni fa. Dopo la rivelazione.» esordì Luca.
«Quale rivelazione? E poi cosa dici, quello sei tu? E' un vecchio...»
«Appunto. Io in effetti avrei centosei anni»
Francesco scoppiò incautamente a ridere, lanciando subito dopo un grido e tenendosi la pancia. Luca proseguì come se niente fosse:
«Abitavamo in campagna. Io e mia moglie. Avevamo un fazzoletto di terra sulle colline, a ridosso della città. Coltivavamo verdura, allevavamo polli e conigli. Ogni tanto si ammazzava il maiale coi contadini degli appezzamenti vicini... insomma tiravamo avanti decentemente. Anna, mia moglie, se n'è andata sedici anni fa.»
Si alzò, andò ai fornelli e sistemò un vassoio con due tazzine e una zuccheriera su una sedia vicino al letto.
Francesco allungò la mano tremante, Luca lo aiutò delicatamente a sollevarsi e a bere un sorso.
«E come mai sei venuto a stare qui, in mezzo al nulla?»
«Adesso ci arrivo. Un giorno che ero alla sorgente a prendere acqua, ho trovato questa» ed estrasse una pietra grigia dal cassetto sotto il pianale del tavolo. Era rettangolare, grande quanto un portafoglio. La avvicinò al viso di Francesco, che all'unico bagliore del camino, vi lesse:

Per te oh pellegrino
che questa pietra raccogli
ci son tre desideri per il tuo destino;
Orsù dunque, la buona sorte accogli!

«Come primo desiderio ho chiesto di tornare giovane, ed eccomi qui», disse indicandosi dalla testa ai piedi.
Francesco ascoltava in silenzio.
«Era magnifico avere di nuovo la forza, l'entusiasmo e l'incoscienza dei vent'anni! Fu una seconda rinascita, una linfa ribollente e pulsante di mille desideri!»
Mentre raccontava e ricordava, l'emozione gli illuminava il viso.
«Ho viaggiato in lungo e in largo. Ho ammirato i panorami più strabilianti. Ho nuotato nei mari tropicali, volato in mongolfiera, attraversato deserti a dorso di cammello e dormito sotto le stelle su isole sperdute. Ma fu il secondo desiderio che mi cambiò la vita.»
Francesco centellinò l'ultimo sorso di tè, appoggiò la tazzina sul vassoio e continuò a guardare l'amico con trepidazione crescente.
«Volevo vedere cosa c'era dopo... dall'altra parte.»
«Dopo la morte intendi?»
Luca annuì.
«E cosa c'era?» sibilò Francesco con la voce rotta.
Luca sorrise. «Come posso dire... non si può spiegare...» e rivolse pensieroso lo sguardo alla bufera che sferzava la finestra.
«E' una dimensione di puro spirito, l'anima che si libera del corpo?» lo incalzò Francesco.
«No, è un luogo reale... non c'è il sole ma il cielo è sempre limpido. Tutto è beatitudine, calma e pace. Una serenità sovrumana, ecco. Dopo quell'esperienza, una volta tornato a questa vita, non ho avuto più bisogno di niente.»
Un ululato echeggiò in lontananza.
«Bene, ora che so cosa mi aspetta vado tranquillo, dovesse anche essere stanotte...», sussurrò Francesco. Poi chiuse gli occhi e sprofondò il viso nel cuscino.

L'elicottero sorvolava le cime innevate. La giornata era limpidissima e soleggiata.
Quando Francesco riprese conoscenza si ritrovò imbragato a una lettiga.
«Stia tranquillo, la stiamo portando in ospedale. Lei è un miracolato!» esclamò uno dei due uomini in camice bianco, urlando per sovrastare il rumore.
«Luca... non l'ho ringraziato...» farfugliò Francesco «volevo salutarlo...»
«Chi è Luca? Qualcun altro è precipitato nel crepaccio?» urlò l'omone baffuto di prima.
«No, Luca... mi ha salvato lui, ero a casa sua...» balbettò Francesco.
«Signor Rossi, l'abbiamo estratta da un crepaccio. I suoi amici all'albergo ci hanno allertati e grazie al GPS del suo telefono l'abbiamo localizzata. C'era qualcun altro con lei?»
Francesco si riassopì e si risvegliò in un letto d'ospedale. Indossava un pigiama, i vestiti della giornata erano buttati su una sedia. Si portò d'istinto una mano alle tempie. Non sentì garze, né sangue o ferite di sorta. Sollevò le braccia davanti agli occhi: neanche un graffio. Mosse le gambe sotto il lenzuolo, dapprima con cautela, poi energicamente. Non ebbe bisogno di scostare le coperte per capire che non aveva niente di rotto.
Dalla tasca della giacca a vento, sullo schienale della sedia, sbucava un foglietto di carta. Si allungò, lo agganciò con la punta delle dita, lo dispiegò e lesse: “Il terzo desiderio l'ho dedicato a te. Ricorda, non affannarti inutilmente, in questa vita; e per quando sarà (mi auguro il più tardi possibile): stai tranquillo, è bellissimo dopo. Ciao. Luca.”

Concorso " L'Indice delle Esistenze - Le Passioni "


"Gentile Salvatore Di Sante,

In relazione alla sua partecipazione al Concorso “L’indice delle esistenze – Le Passioni” la Aletti Editore dopo aver visionato il materiale pervenuto in redazione ha deciso di inserire la sua poesia “A Katia” all’interno del libro “L’indice delle esistenze – Le Passioni”.
Il libro sarà pubblicato nell’ultima settimana di Marzo 2013."

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 Un piccolo passo per l'umanità, un grande passo per un uomo! :-)

martedì 5 febbraio 2013

Un amore su due ruote e un bloccasterzo di troppo

A pensarci adesso ci rido, ma quella volta mi sarei sparato.
Ricordo come fosse un secondo fa, la tremenda frustrazione... e anche la tremenda frustata per terra... la sera poi ho scaricato un camion con un ginocchio e una spalla distrutti...
Questa è la caduta, ma torniamo indietro, vediamo adesso la fase più esaltante, il momento di gloria, l'apice...
Correva l'anno 1999 e mi sentivo un leone, coi miei ventiquattro anni, la moto, l'abbraccio travolgente della primavera e baffi e capelli lunghi come non mai (giusto in questo periodo ho un attacco di nostalgia, ho litigato di nuovo col barbiere e non ci tornerò prima di avere un bel codone di cavallo).
Quanto mi manca quella sensazione! La potenza che ti saliva sottopelle al solo splendere del sole; la beatitudine alla vista di un prato fiorito, ebbrezza bucolica!

Come non era mio solito, (le cose migliori capitano sempre quando meno te l'aspetti), avevo deciso di partecipare a un incontro interparrocchiale, in un paesino dell'entroterra a cinque minuti di moto da casa mia. Giusto per non saper cos'altro fare, assolutamente pronto al grigiore più totale. E invece... la folgorazione!
Eccola che mi appare nello spiraglio del portone della chiesa, mentre sono impegnato a morire d'inedia su una panchina del campetto da basket.
Neanche mi avessero preso la testa fra le ganasce di un defibrillatore! Sono schizzato in piedi e sono partito all'attacco.
Una cosa così non mi era mai successa, forse (lo dico con molta prudenza, a distanza di quattordici anni), era l'unica volta che mi sono innamorato. Ma queste sentenze sono troppo ardue, sono gli interrogativi maiuscoli dell'infima esistenza mortale, meglio sorvolare...
Insomma vado spedito verso di lei. Era con un'amica, (in futuro mi capiterà spesso di puntare una e finire poi con l'amica... ma bando alle digressioni), tutte e due in piedi davanti alla tavolata dei dolci, in una stanza dell'oratorio. Classico ferro di cavallo con tavolini di plastica e tovaglie di carta, straripante di ciambelloni bicolore, crostate di albicocca o nutella, californiane, dolci del nonno e caberettini di mignon. Il tutto innaffiato da Coca e Fanta. La vedo avventarsi su una piastrella di ciambellone nutellato e colgo la palla al balzo:
«Bisogno di zuccheri, hai carenza d'affetto?», mamma mia, dovevo essere posseduto... è proprio vero: l'innamoramento ha la sintomatologia di un trip allucinatorio!

Ma come tradizione vuole, se declami Leopardi su un bianco destriero al chiaro di luna, vai pure tu in bianco, che più bianco non si può! Te ne esci invece con una cretinata trita e ritrita, magari anche buzzurra, ed è la volta che fai colpo!
Il pomeriggio vola via tranquillamente scambiando quattro chiacchiere, ma a me basta vederla sorridere, un'occhiata a quegli occhioni azzurri e ho tutto quello che voglio dalla vita! (Il Lucano mi dà acidità di stomaco).
Riesco a mantenere un insignificante barlume di lucidità, quel tanto che basta per sbirciare dove abitasse... benissimo! Stava in un delizioso villino proprio dietro la chiesa.
Non ricordo se quella notte ho dormito o sono rimasto con gli occhi a palla a contare le ombre sul soffitto, poco importava: il colpo da matto l'ho fatto il giorno dopo.

Anche questa è una cosa unica nella mia vita, non ho mai più sentito uno slancio così irrefrenabile, né mi sono mai più annullato così per una ragazza, per muovere quel passo... come staccarsi dalla roccia, a cinque metri, per tuffarsi nelle “pozze” di Cagli.
Insomma inforco la moto e vado a suonarle a casa. Così, senza preavviso... e d'altronde non avrei potuto, di lei sapevo solo il nome, la via e che era la diciassettenne più desiderabile di tutti i mondi paralleli possibili...
«Buongiorno signora, c'è Sara?» (anche in preda al delirio ero sempre una personcina a modo).
A faccia in su mi rivolgevo a una donna sui quaranta, mora e snella, che rassettava i panni sul balcone.
Bella la figlia, bella pure la madre.
«Saraaaaa!», urla la mamma senza troppi riguardi, (nonostante i modi educati sembravo un centauro fattone, io che non ho mai fumato nemmeno sigarette... ma con quei capelli e la moto da cross semi sommersa da fango e olio...), «C'è uno coi baffi che ti vuole!» (ecco la prima delle due frasi epiche della giornata), bercia squadrandomi con schifo malcelato.
Ma ecco fare capolino un caschetto castano e quegli occhi, ecco accendersi il bianco del sorriso! Un colpo di spugna che mi scioglie nel sole e nell'azzurro sopra di lei.

Per tutto il pomeriggio passeggiamo per il paese, (fortunatamente quasi deserto dato l'afoso lunedì pomeriggio di giugno), conversando amabilmente del più e del meno. In realtà io in testa avevo un disco in loop che faceva: guarda com'è bella e sta qui con te, e che non lasciava molto spazio a ragionamenti o concetti troppo profondi.
Gira che ti rigira, un po' che avevamo fatto i solchi nell'asfalto, un po' che si era sull'imbrunire, un po' che la conversazione, dopo quasi tre ore, accennava a languire, quando ricapitiamo sulla porta di casa sua conveniamo entrambi che è ora di salutarsi. E qui arriva la seconda frase mitica, da parte mia questa volta, meglio di Fonzie! Suonava pressappoco così:
«Senti voglio essere sincero se sono venuto qui oggi non è per perdere tempo è perché mi piaci e mi piacerebbe stare con te.». Se le parole non furono precisamente queste, di certo furono pronunciate con la stessa velocità e brutalità!
Ma attenzione: come reagisce lei? Se aveste visto me e aveste visto lei... insomma in un mondo dove ci fosse giustizia (senza nulla togliere alla superficialità dell'aspetto fisico), doveva farsi una grassa risata, liquidarmi con un cenno della mano e lasciarmi lì per strada come un fesso...
Invece mi risponde, con tono calmo: «Tranquillo, se non mi piacevi non sarei neanche scesa, sono stata bene a parlare con te»
In quel preciso istante due cose per me divennero dogmi.
Primo: la teoria delle stringhe era esatta e mi trovavo in uno degli infiniti universi paralleli. Secondo: ero persino meglio di Fonzie.
Con questi pensieri in testa, scombussolato da cotante emozioni... come pretendete che mi ricordassi del bloccasterzo?! Quella chiave grande quanto l'unghia del mignolo, tre cose faceva: sganciava il casco dal codino della moto, toglieva il bloccasterzo e accendeva. Come avrete già capito feci due cose su tre.

«Ti sei fatto male? Vuoi entrare in casa?», la sua voce attutita da quintali d'ovatta, quasi giungesse da distanze siderali (quelle dei mondi paralleli probabilmente).
Io che per fare il figo ero anche partito a manetta: piede in fuori, come i piloti, scarto la Peugeot parcheggiata davanti, mi rimetto dritto... cioè avrei voluto...
Un gigantesco ammazza mosche mi fionda per terra: ricordo che visualizzai quest'immagine.
Anestetizzato dall'adrenalina a mille raccolgo i pezzi dello specchietto, di qualche leva e del paramano e li ficco a mo' di criceto sotto la giacca a vento rossa della Marlboro.
«No, no tranquilla, sto bene», continuo a fare il figo. Ma lei sta sghignazzando? Dai, non può essere così cinica... Qualche ora dopo, al lavoro, mi sarei accorto di quanto effettivamente mi fossi fatto male. Mezzo scocciolato, come la mia moto, riparto verso casa con la coda fra le gambe e con la manopola del gas tutta imbarcita per i sassolini che ci si erano infilati.

Beh, ci sta, è il Karma, si dice così no? Era troppo bello per essere vero, ci voleva un evento che bilanciasse l'universo. Il mondo non lo sa, ma deve ringraziare me se ancora fila tutto per il verso giusto! In un microsecondo da Fonzie a Mr. Bean. Contuso, ( e pure confuso), con la moto intarocchita, e single peggio di prima.

sabato 2 febbraio 2013

Il nuovo negozio

Aprendo la porta della cameretta la madre lo sorprese intento a fissare il coniglietto di cioccolato.
Non dovevi andare a giocare a pallone?”, chiese Anna con ancora indosso il guanto da forno a strisce rosse.
Alessandro si soffiava dagli occhi la zazzera castana spaghettiforme, per concentrarsi sull'animaletto-dolciume: la cura dei particolari era impressionante, gli occhietti avevano persino una minuscola pupilla.
Più lo fissava e più sentiva crescere una sensazione calda, di vaga premonizione, come se all'improvviso quegli occhi settanta-per-cento-cacao dovessero accendersi di un guizzo.
Sì, adesso vado mamma...”, bisbigliò quasi assente, appoggiando con cura il coniglietto sul comodino di fianco al letto, sotto l'abat-jour azzurrina.
Stai facendo i biscotti?”, esclamò poi additando il guanto da forno.
Si, quelli di pasta frolla con le gocce di cioccolato, quelli che ti piacciono”, sorrise Anna.
Evvai!”, con uno scatto saltò giù dal letto e corse a raccogliere lo zaino. “Così stasera quando torno li mangio!”
Dopo cena però, se no ti passa l'appetito”, lo ammonì la mamma.
Alessandro non rispose, ficcò nello zainetto una bottiglia d'acqua, il pallone, una Fiesta e inforcò le scale come un forsennato.
Era già sul marciapiede e non poté sentire sua madre che dal piano di sopra gli gridava: “Piano, piano!”.
Camminava spedito, lo sguardo incollato sulle scarpe da tennis nere e un sorrisetto beffardo. Prima di svoltare l'angolo lanciò un'occhiata furtiva alla finestra della sua stanza, in mansarda. Le tende erano tirate e immobili.

Ma qui fino a ieri non c'era un negozio di scarpe?”, così aveva detto sua madre, alquanto stupita. E invece dalla sera alla mattina, dell'eterogenea moltitudine di mocassini, stivali, scarponi, ciabatte e pantofole si era persa ogni traccia.
Alessandro si aggrappava estasiato alla vetrina, gli brillavano gli occhi: invece del mare di scarpe c'era una foresta incantata. Era un reame di cioccolato, tutto popolato di animali. Sulla carta da parati dello sfondo alcune cime innevate si stagliavano contro un cielo limpidissimo. Del muschio era steso dappertutto e sopra, qui e là, spuntavano alberelli carichi di frutti arancioni. Nell'angolo a destra c'era una piccola baita, sempre di cartone, lambita da un filo di ghiaietta che serpeggiava verso le montagne. E ovunque animaletti di cioccolato. Sei cigni, uno più grande e una coda di piccoletti, galleggiavano nel laghetto di stagnola, laggiù a sinistra. Poi, raccolti in gruppi o sparsi sotto gli alberelli e intorno alla casetta, c'erano decine di coniglietti, gatti, cani, cerbiatti, mucche, cavalli. Grossi uccelli ad ali spiegate, appesi con lo spago, pendevano fra le montagne.

La campanella trillò allegra.
Buongiorno”, salutò educatamente Alessandro.
Oh, ciao, sei di nuovo tu...”, l'apostrofò benevolo l'anziano signore. Aveva folti baffi candidi e minuscoli occhialetti tondi. Con la barba sarebbe stato un perfetto Babbo Natale.

La coperta ebbe un piccolo sussulto. Anna, che stava sistemando la camera del figlio, si fermò un attimo, perplessa. Forse se l'era immaginato, la finestra era chiusa, non c'era corrente. Riprese a spolverare le mensole sopra la scrivania, ma un rumore sommesso la interruppe di nuovo. Veniva proprio da sotto il letto. Si chinò con circospezione, un po' impaurita. Sollevò lentamente il lembo della coperta, reggendo ancora nell'altra mano il flacone del Pronto.

Alessandro rimaneva immobile al bancone, guardando il registratore di cassa, un po' intimidito. Si guardò intorno: il negozio era vuoto.
Vuoi un altro animaletto? Altri coniglietti?”, gli sorrise il signore.
Adesso che ci pensava, quel negozio era sempre stato vuoto, tutte le volte che ci era capitato. Eppure vendeva cioccolato, ci sarebbe dovuta essere la fila fin fuori dalla porta! Invece anche quel pomeriggio non c'era nessuno. Certo, in agosto la città si svuotava e gli altri commercianti chiudevano quasi tutti. Il cioccolato poi è uno sfizio più invernale che estivo.
Ce l'hai un leone?”, chiese Alessandro.
Oh, sì che ce l'ho, in vetrina non c'è ma te lo faccio subito; io faccio tutti gli animali”, esclamò trionfante il vecchietto lisciandosi i baffi e sistemandosi il fungoso copricapo da pasticcere.
Allora vorrei un leone”.
Il locale era piccolissimo, non c'erano altri commessi. Soprattutto non c'erano altre porte: dov'era il laboratorio?
Il vecchietto scomparve chinandosi dietro il bancone e ne emerse un istante dopo porgendo al ragazzino la perfetta miniatura di un leone, le fauci spalancate in un ruggito e una zampa sollevata. “Cinque euro come sempre”.
Alessandro allungò la banconota tutto contento e si precipitò all'uscita.
Mi raccomando ragazzino, mangialo prima che scada. I miei cioccolatini scadono molto presto...”, si raccomandò il negoziante.
Quando scade poi si guasta subito? Non lo posso mangiare neanche se è scaduto solo da un giorno?”, obiettò Alessandro.
Se scade poi ti mangia lui, sta attento!”, esclamò il vecchio in tono perentorio. Qualcosa si indurì negli occhi azzurri dietro le spesse lenti. Alessandro tergiversò con la maniglia in mano, poi corse fuori ridendo forte. Quando svoltò l'angolo si accorse che il vecchio lo guardava fisso, ritto dietro la porta, e non sorrideva.

Sono tornato...”, vociò Alessandro irrompendo in casa come suo solito, lanciando lo zaino sul divano. La mamma non rispose. Di sopra, la porta della sua camera era socchiusa. Salì le scale adagio, stringendo forte il corrimano laccato bianco.
Mamma...”, chiamò quando fu quasi in cima, la voce gli uscì strozzata.
E questo?! Dove l'hai preso?!”. Anna comparve trafelata, brandendogli davanti alla faccia un coniglietto marroncino e grigio.
Te l'ho detto mille volte che non voglio animali in casa...”
Ma non l'ho preso io, non so da dove viene...”, piagnucolò Alessandro.
Ah non lo sai? Magari si sono arrampicati su per il muro... in pieno centro!”
Il ragazzino si stropicciava le mani, guardando il pavimento.
Volevi tenermeli nascosti? Cosa credevi, che non li avrei mai visti, eh?”, gridò sua mamma.
Alessandro entrò frastornato in camera sua. Sul letto era accovacciato un grosso coniglio bianco che subito gli piantò addosso le iridi vermiglie. Per terra due batuffoli più piccoli si rincorrevano frenetici, scomparendo e riapparendo sotto il letto, dietro l'armadio, sotto la scrivania, in un turbinio di pellicce nere e fulve. Sotto l'abat-jour fremevano leggermente i resti di un piccolo incarto dorato. Se con un po' di pazienza qualcuno avesse dispiegato la stagnola, ci avrebbe letto: “Scad. 18/08/2013”.
Lentamente Alessandro tirò fuori di tasca il leone, fissando la madre con gli occhi sbarrati. Poi lo scartò in tutta fretta e lo ingoiò intero.

martedì 15 gennaio 2013

Frammenti d'assurdo

Come ogni mattina lo svegliò il cellulare sulla mensola, alla sua sinistra: le sei e tre quarti. Come ogni mattina il pensiero del suo squallido monolocale lo avvilì. Un anno fa era stato a un passo dall'altare e adesso era solo come un cane. Ironia della sorte aveva un gatto a fargli compagnia. Provava un’indefinita svogliatezza e un leggero senso di nausea. Tra poco in ufficio ci sarebbe stata una pesantissima riunione sul bilancio di fine anno e lui era nell'elenco dei relatori. Il suo intervento era il quinto della mattinata. Voci di corridoio mormoravano di licenziamenti, declassamenti e trasferimenti. Allungò la mano, zittì il telefono e come uno zombie si trascinò alla porta del bagno. - Occupato – si sentì rispondere. Provò ad aprire ma era inchiavato. Troppo assonnato perfino per pensare, si accovacciò a sbirciare dalla serratura. Dallo spiraglio lasciato libero dalla chiave intravvide una persona identica a lui intenta a farsi la barba davanti allo specchio.

Una leggera bruma imperversava nella notte senza luna. Intorno tutto taceva. Solo buio pesto. Non era un uomo per fortuna. Nemmeno un cane. Ma quegli occhi e quelle zanne non erano di questo mondo. Acquattato dietro un cespuglio cercavo di scorgere tra gli alberi il minimo movimento. Nulla. Non si muoveva foglia. Nemmeno un alito di vento. Un silenzio immobile e innaturale. A una ventina di metri la mia Alfa ridotta ad un groviglio di lamiere, col fumo bianco che ancora usciva dal cofano. D'improvviso un sibilo dietro di me.

L'autobus si era quasi del tutto svuotato. La maggior parte erano scesi alla fermata precedente, quella della scuola. Marco osservava dal finestrino i suoi compagni che come un esercito di soldatini armati di zainetto cartelle e album da disegno marciavano verso il fronte delle quotidiane interrogazioni e dei compiti in classe. La giornata però era troppo bella per sprecarla, e quindi lui e Andrea si erano sentiti il giorno prima e avevano deciso di passare la mattinata al mare. Marco e Andrea erano da sempre compagni di banco, dalle medie fino ad ora, nella quinta ginnasio del liceo Tasso. Erano tanto più amici quanto più diversi. Forse era proprio quella la forza della loro amicizia. Marco uno studente modello, otto in tutte le materie indifferentemente, anche se lui preferiva quelle umanistiche; Andrea invece era il classico bulletto scavezzacollo con tutti quattro/cinque, più amante delle scorribande in motorino, delle bravate coi compagni o delle spacconate con le compagne. Già alle nove del mattino il sole splendeva alto e picchiava abbastanza. Marco gettò un'occhiata al suo zaino, dove invece di libri e quaderni aveva asciugamano, pallone e crema solare. Tra un' oretta sarebbe arrivato alla spiaggia e avrebbe trovato ad aspettarlo il sorriso beffardo di Andrea con la sua Vespa bianca. Era bella quella sensazione di trasgressione, quella botta di straordinario in una giornata altrimenti deprimente e pallosa come tutte le altre. Marco sorrise mentre cullava questi pensieri all'andatura soporifera del vecchio autobus arancione. D'un tratto si sentì un po' in colpa perché di lì a poco lui sarebbe stato promosso, mentre il suo compagno Andrea di sicuro non sarebbe andato al liceo. D'improvviso un gatto rosso catturò la sua attenzione. Era accovacciato ad una fermata di fianco a tre bambine cinesi, una signora più anziana, forse la madre e un signore distinto, in giacca cravatta occhiali scuri pizzetto e ventiquattro ore, un rappresentante, un uomo d'affari o qualcosa di simile. Quel gatto sembrava guardarlo. Un bel gattone tigrato rosso con gli occhi verdi. L'autobus era filato via senza il minimo rallentamento, nessuno aveva fatto cenno al conducente di dover salire. Le quattro persone erano rimaste completamente immobili, sembravano quasi statue di cera, impassibili e assenti. Gli occhi del gatto in confronto sprizzavano una potente vitalità. Marco si infastidì e distolse il viso dal finestrino. L'autobus si fermò e scesero tutti. Marco rimase solo. Un'occhiata all'orologio: le nove e un quarto. L'autobus riprese la sua corsa e Marco si rimise a guadare fuori. Il tempo era cambiato di colpo, non c'era più il bel sole di prima, si era fatto molto nuvoloso. Strano. Marco guardò in direzione dell'autista come a chiedergli spiegazioni, ma dal suo posto non poteva nemmeno vederne il riflesso sul retrovisore. Per quel che ne sapeva l'autobus avrebbe potuto anche muoversi da solo, spinto dalla stessa energia oscura e misteriosa che aveva guastato quella splendida mattinata estiva rendendola cupa e uggiosa come una di fine novembre. Era inquieto, non vedeva l'ora di raggiungere Andrea. L'autobus superò un'altra fermata a tutta velocità. Sotto la pensilina nessuno. L'autobus sembrava andare sempre più veloce e superava solo fermate deserte. Erano le nove e mezza, gli sembrò che il tempo si fosse dilatato, non si ricordava tutte quelle fermate in soli venti minuti. Ecco un'altra fermata: l'autobus al solito proseguì imperterrito ma con la coda dell'occhio Marco scorse un bagliore verde in un gomitolo rosso. Possibile fosse quel gatto? Dopo qualche istante lo vide distintamente, accovacciato su un muro in pietra vicino ad un grande cancello in ferro battuto. Lo vide per tempo e mentre l'autobus si avvicinava lui e il gatto si guadavano. Per tutto il tempo che l'autobus si avvicinò al gatto e finché lo superò i loro sguardi si incontrarono. Dopo qualche minuto l'autobus si fermò. Marco guardò fuori ma non c'era nessuno. Sulla panca sotto la pensilina solo cartacce e una bottiglia vuota, una fermata fantasma come tutte quelle di prima. L'autobus non ripartiva. Dall'abitacolo dell'autista non giungeva segno di vita. All'improvviso qualcosa di rossiccio sgattaiolò dentro. La porta si chiuse e il gatto balzò sul posto vuoto di fronte a Marco. Il ragazzo e il felino si guardavano negli occhi in silenzio. Il gatto leggeva paura e sgomento in quelli di Marco. Marco invece notò con sollievo che gli occhi smeraldo del gatto si erano fatti d'un tratto benevoli e sornioni. - Non vai a scuola oggi? - chiese il micio.

Da lassù vedeva un pullulare caotico di luci, puntini scuri e piccoli rettangoli. Se fosse stato giorno probabilmente avrebbe suscitato più clamore: i puntini scuri si sarebbero raccolti in cerchi, ovali, sarebbe sbucato un megafono; i piccoli rettangoli avrebbero smesso di fare avanti e indietro. La notte gli infondeva quiete, e questo lo aiutava. Bruno voleva andarsene in silenzio come aveva vissuto. Nessun rimpianto, la lettera avrebbe spiegato a Chiara, la moglie, che lei non c’entrava, non era colpa sua, non importava se quella volta l’idraulico era forse un po’ troppo imbarazzato; assolutamente non c’entrava il fatto che non lei non potesse avere bambini. Forse la goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stata la sfuriata del suo capo-ufficio, il giorno prima. Gli aveva dato dell’incapace, dell’ignorante, del fannullone. Ma cosa gliene fregava poi? In fondo quel lavoro non gli piaceva nemmeno...ma forse anche questa era solo una delle mille ragioni. E’ inutile adesso chiedersi cosa passi per la mente di un suicida, credo sia uno dei misteri dell’universo, al pari dell’evolversi delle galassie, dei buchi neri e dell’esistenza di Dio. Fatto stava che aveva deciso di farla finita. La molla scattò, l’interruttore accese la scintilla. Dalla matassa intricatissima di miliardi di sinapsi partì l’impulso che disse alle sue gambe di staccarsi dal terrazzo. Teneva gli occhi chiusi, la sua mente era leggera come non si sarebbe mai immaginato. Ad un tratto fu come se il vento divenisse impetuoso e si levasse una tempesta; d’istinto spalancò gli occhi e si accorse che aveva smesso di precipitare. Respirò lentamente per calmare l’agitazione dello stupore e volò per qualche metro. Si fermò un attimo e guardò giù. Non era cambiato nulla, ma tutta quella frenesia gli appariva adesso vuota e sciocca. Poi capì: guardò in alto e vide la luna. Mai così vicina. Mai così bella. Mai così luminosa. Luminosa e illuminante: la vita adesso aveva tutto un altro sapore, per la prima volta gli parve avere senso. Volò di nuovo per qualche metro, rapidissimamente prendeva sempre più confidenza con la sua nuova abilità. Dopo qualche minuto già poteva volare per centinaia di metri, dopo un'ora di esercizio non aveva più nulla da imparare. E volava, volava velocissimo, scendeva in picchiata, si divertiva a schivare i tralicci elettrici, faceva piroette, evoluzioni e acrobazie. Ogni tanto indugiava qualche istante alle finestre dei piani più alti e osservava una tranquilla cena in famiglia o una furibonda lite fra innamorati o la solitudine di tizi qualunque sprofondati sul divano davanti alla televisione. Ad un certo punto si accorse che dal terrazzo di un edificio poco distante qualcuno gli faceva dei segnali con una torcia. Volò più vicino e sentì distintamente lo sconosciuto intimargli di smetterla e di scendere. Planò sul terrazzone con troppa veemenza, era ancora alle prime armi dopotutto, per poco non urtò l'altro uomo. - Cavolo atterrare è molto più difficile che volare... - Non appena fu coi piedi per terra l'altro gli si avventò contro e lo prese per il bavero della camicia – Ma sei matto ?! Cos'hai in testa, così ti farai ammazzare! Basta, scendi, possono vederti...- Hai visto, posso volare!!!...so volare, volo!!! - Bruno parlava da solo, era fuori di sé dalla felicità e non si curò affatto del tono e della rabbia del suo interlocutore – Incredibile...non è possibile...aspetta...forse è un sogno... - L'altro gli diede un sonoro schiaffo in faccia. Bruno rimase interdetto, ma almeno adesso sapeva che non era un sogno. - Ma che cazzo fai, sei scemo? Perché mi hai colpito?!...E poi chi sei, perché hai chiamato?! Mi chiami per picchiarmi??! - Ascoltami bene – iniziò l'altro in tono grave – ho visto che voli, lo so che voli. Anche io so volare e come me altri possono farlo. Siamo quasi quattrocento ormai. Ci siamo riuniti in una nostra comunità. Io l'ho scoperto tre mesi fa. Volevi suicidarti vero? Io mi gettai proprio da questo palazzo, ho perso tutto giocando in borsa. Anche volendo però, per fortuna o sfiga che sia, la vita non sono riuscito a perderla. I nostri scienziati sanno per ora che accade a quelli come noi che si gettano nel vuoto col chiaro intento di uccidersi. Non funziona se cadi per sbaglio dal balcone, da un'impalcatura o da una finestra, mentre giochi o sei distratto o fai lavori e pulizie; non succede nemmeno se non ti si apre il paracadute: devi suicidarti. Non abbiamo ancora scoperto un particolare gene o caratteristica fisico/biologica che ne sia responsabile. Non dipende né dal sesso né dall'età né dalla razza. Con ogni probabilità rientra in quel 90% di cervello che normalmente non si usa. Ma il brutto è che lo sanno anche loro. - Loro chi? - chiese Bruno. - Parlo di quelli dell'area 51, dell'alternativa 3, degli esperimenti per il controllo climatico, dei viaggi temporali. Scommetto che non ci hai mai creduto, quasi nessuno ci crede, è quello che vogliono; fanno di tutto per far passare queste cose come cialtronerie, fantascienza o favolette, diffondendo forum e blog in rete e promuovendo ridicoli programmi televisivi. Invece è tutto vero. Rifletti un attimo: prima di stasera avresti mai creduto che gli uomini potessero volare? - Bruno trasalì. Quell'uomo aveva colto nel segno. Lo sconosciuto continuò – Immagina se si venisse a sapere: le compagnie aeree fallirebbero, non si venderebbero più né auto né moto, non ci sarebbe più bisogno della benzina, del petrolio. Adesso tengono il mondo per le palle. Se ti scoprono ti ammazzano. Non vogliono perdere il loro potere e i loro miliardi. Ti fanno fuori senza pensarci un secondo. Sai quanti amici ho visto uccidere...loro possono tutto e non temono niente, per loro non c'è né legge né giustizia, sono al di fuori e al di sopra di tutto e tutti. Si tratta di un'organizzazione paramilitare segretissima, una sessantina di persone in tutto il mondo. - Dopo quella spiegazione Bruno, visibilmente scioccato si mise a sedere a terra e si prese la testa fra le mani. Era decisamente troppo tutto in una volta. Lo sconosciuto fece una pausa, un lungo respiro e gli disse con tono pacato – Da stasera tu per tutti sei morto. Non puoi più tornare alla solita vita. - E chi la vuole... è proprio per quello che volevo ammazzarmi...- sorrise Bruno. - Eh già, questo è uno dei lati positivi della faccenda... - rispose lo sconosciuto tendendogli la mano e issandolo in piedi. - Andiamo dai, ti porto dagli altri – Bruno annuì, si alzarono in volo e scomparvero nella notte.


Non riusciva proprio a concentrarsi. La giornata piovosa al di là dei finestroni non aiutava. Fissava sul monitor il report in excel ma da venti minuti non faceva un clic. Era molto arrabbiato. In ufficio erano giorni difficili. Un caos di telefonate a raffica, conference call, non si poteva rimanere su un lavoro per più di cinque minuti di fila. Il genere di cose che mettono profondamente in crisi quelli col suo carattere. Faceva vagabondare lo sguardo sulla scrivania: l'evidenziatore arancione, un mucchio di graffette, il suo cellulare con sopra la penna, il portafoglio di pelle nera, i post-it rosa, un calendario 2011 di una ditta sconosciuta, una cartellina di plastica rossa, un giornale di annunci vari. Poco più in là il solito sacchetto di plastica con dentro il pranzo microondabile, lo spazzolino, il dentifricio, la forchetta e un frutto. Ogni giorno si portava dietro sempre lo stesso sacchetto. Forse era meglio fare una pausa. Si, ci voleva proprio uno stacco. Come un automa prese verso il bar all'angolo a poche decine di metri dall'ufficio, il solito in cui andava tutte le mattine più o meno a quell'ora in compagnia di tre o quattro colleghi. Stavolta però era solo. Pioveva forte ma non se ne curava. Il giubbotto aveva il cappuccio ma l'aveva lasciato abbassato. A capo chino e con lo sguardo spento contava lungo il tragitto le cicche di sigaretta, le cartacce, le bottiglie e le altre schifezze gettate per strada. Alzò la testa solo per entrare nel bar. Gli sembrò che tutti smettessero di fare le loro cose per mettersi a fissarlo. Indugiò un attimo sull'uscio e sentì salire alla testa un getto di rabbia caldo. Il suo sguardo era furioso, avrebbe voluto incenerire tutti quegli stronzi con i loro cornetti bloccati a mezz'aria e la loro spregevole espressione ebete. Ordinò con tono sprezzante cappuccino e bombolone. Che giornata di merda! Tutte a lui erano capitate: l'imbecille in macchina che gli era stato sotto il culo per un'ora lampeggiando e strombazzando e che poi l'aveva sverniciato col dito medio fuori dal finestrino; quel mezzo scemo all'edicola che urlava come un ossesso inveendo non si sa bene contro chi o cosa; per finire, ciliegina sulla torta, quel commento pesantissimo del suo capo riguardo una relazione da lui consegnata giorni prima. Centellinò il cappuccino e mangiò il bombolone a piccoli morsi, in silenzio. Ogni tanto qualche rivoletto di crema gli cadeva sui jeans. Ma a lui non importava. In testa aveva un ronzio continuo e non riusciva a pensare a nulla che lo distogliesse dalla rabbia. Gli balenarono alla mente i fucili da caccia di suo zio, in garage. Sapeva usarli e sapeva dov'erano le chiavi della rastrelliera: sotto il vaso dei gerani. Sulla parete di fronte campeggiava una grande fotografia di una spiaggia tropicale, con un mare cristallino, un cielo così azzurro da sembrare finto, finissima sabbia bianca e una gigantesca palma proprio al margine sinistro. Sotto la palma si intravvedeva un'amaca con sopra un ragazzo biondo di spalle che si godeva beatamente un mojito. Due tre settimane prima magari avrebbe invidiato quel ragazzo e desiderato di essere su quell'isola a prendere il sole e correre dietro alle ragazze. C'erano stati momenti in cui l'azzurro di quel cielo e di quel mare da favola sarebbero potuti essere intollerabili. Ora non più. Adesso era troppo tardi. Aveva superato quel confine. La foto non evocava nulla in lui, lo lasciava del tutto indifferente. Era come guardare il muro vuoto. Gettò un'occhiata all'orologio: era ora di tornare al lavoro, non voleva altre ramanzine. Mentre rientrava con la coda dell'occhio si accorse del barista che si sbracciava e urlava frasi sconnesse, qualcosa con “...gare...conto...pezzente...ladro”. Avvertì una strana sensazione. Di colpo non riconobbe più la lingua in cui si esprimeva . Eppure prima al bar l'aveva sentito discutere di calcio, di auto, di programmi TV e ne seguiva perfettamente i discorsi, i suoi e quelli di tutti gli altri stronzi che lo fissavano e ce l'avevano con lui. Concluse che il barista avesse cambiato nazionalità e non gli diede peso. Succede a volte. Vai dal salumiere giù all'angolo, ordini salsicce e costarelle in italiano e lui te le serve apostrofandoti in ungherese. Un collega gli aveva raccontato che ad un suo amico era successa proprio la stessa cosa. Non poteva preoccuparsi anche di quello, aveva cose urgenti da fare lui, doveva lavorare, office, excel, presentazioni power-point; veloce, forza, che arriva la scadenza e se no niente paga e niente promozione. Almeno l'ufficio era silenzioso quella mattina, aveva bisogno di concentrarsi e di solito sembrava di stare al mercato. Di questo era grato ai colleghi, perché lo capivano, capivano la delicatezza del periodo che stava attraversando e si sforzavano di non fare casino, per lasciarlo quieto a lavorare in pace. Per questo rivolse a tutti quelli che incrociava larghi sorrisi e cenni di saluto. Nessuno li ricambiò. Strano, pensò, prima sono gentili e stanno in silenzio, poi fanno gli stronzi e non salutano. Forse allora sono tutti stronzi. Anche i suoi colleghi sono stronzi come la gente al bar. La gente che lo fissava. Ce l'avevano con lui. Magari i colleghi fingevano di essere gentili ma alle sue spalle tramavano con gli avventori del bar. Ecco perché lo fissavano. Chissà cosa avevano detto di lui i colleghi: delle volte che indugiava troppo al bagno, di quando era inciampato e aveva rovesciato una risma di fogli per stampante, o di quando parcheggiando aveva sbattuto contro i bidoni della spazzatura e aveva visto dalla vetrata che tutti dentro l'ufficio lo additavano e ridevano. Ma lui non se l'era mai presa. Aveva sempre abbozzato, fatto buon viso a cattivo gioco, come si dice. Ad ogni modo non era il caso di prendersela. Non valeva la pena farsi il sangue amaro, d'altronde era sempre stata una persona molto equilibrata. Riprese posto alla sua scrivania, questa volta deciso a terminare con successo il lavoro lasciato in sospeso. Via, rimboccarsi le maniche e pedalare! Una penna, non trovava più la sua, gli serviva una penna. Ah, eccola, che sbadato: l'aveva conficcata nel collo del suo vicino di scrivania. La estrasse di scatto e il sangue zampillò copioso, schizzandogli in faccia e sul monitor. Ne leccò un po' che gli colava dalla guancia e con la mano cercò di pulire il monitor. Ma lo schermo era nero. Non c'era più il verde di excel, con le tabelle e i grafici a torta. Guardò il case per terra, di fianco alla sedia e si accorse che il cavo dell'alimentazione era staccato. Non l'aveva staccato lui. O forse non se ne ricordava. Ma il computer l'aveva acceso quella mattina? Di nuovo lo assalì quel vago senso di stordimento che aveva avvertito quando il barista aveva cambiato nazionalità. Trasalì al frastuono delle sirene rosse e blu e dello stridere di pneumatici. Non poteva lavorare in quelle condizioni. Pazienza, avrebbe recuperato l'indomani. Sistemò meticolosamente gli oggetti sulla scrivania, accostò per bene la sedia e raccolse il suo sacchetto di plastica. Un'ultima occhiata prima di tornare a casa. L'ufficio era splendidamente silenzioso. I corpi erano disposti in maniera appropriata: le sagome si abbinavano perfettamente all'arredamento, per nulla turbando le invisibili geometrie del suo sublime disegno. Ne era soddisfatto. Sospirò e chiuse la porta dietro di sé.


Da giorni ormai perdeva le nottate a spulciare tra le righe di quell’antico manoscritto. L’altra notte era andata via la luce in tutto il palazzo e come al solito non era riuscito ad adoperare una candela o una torcia. Ma non si era dato per vinto e aveva continuato imperterrito il suo studio matto e disperatissimo. E anche oggi eccolo lì, accomodato sul grande divano giallo in sala, curvo sull’imponente tomo in pelle anticata dal titolo “Metempsicosi e ciclicità dei flussi vitali”. Non aveva mai notato tutta quella sporcizia fra le piastrelle del pavimento. Avrebbe dovuto rinfacciarlo a sua moglie ogni volta che gli rompeva le scatole; quante litigate per le patatine e le briciole su quel divano quando gozzovigliava con gli amici davanti al favoloso plasma da sessanta pollici! Eh, bei tempi quelli! Erano altri tempi...era un altro tempo. D’un tratto una macchietta grigia attraversò la stanza e si fiondò sul terrazzo attraverso il piccolo pertugio lasciato dalla porta-finestra non del tutto chiusa. Nonostante la concentrazione non poté resistere, si gettò all’inseguimento e in men che non si dica aveva ghermito l’ambitissima preda. L’avrebbe lasciata sul lettone matrimoniale per quando la moglie fosse tornata a casa, per farle vedere quanto bene pulisse la casa; lei che gli dava continuamente dello scansafatiche, si lamentava sempre di fargli da serva e si vantava delle sue strabilianti doti di massaia. Gongolò al pensiero della faccia che avrebbe fatto: sarebbe rincasata a minuti. Tornò al libro. Non riusciva a trovare l’inghippo. Qualcosa evidentemente non aveva funzionato, ma non capiva cosa. Non se ne faceva alcun accenno. Forse il suo era un caso unico. Il primo caso. Sentì il rumore di passi familiari sul selciato e dopo qualche minuto quello della chiave nella toppa. Una donna sulla sessantina fece capolino sull’uscio con due grosse sporte della spesa e una vaporosa acconciatura bionda.
-Ciao Felix! – l’apostrofò – guarda un po’ cosa ti ho portato? – e tirò fuori un barattolo di whiskas. Si alzò di scatto dal libro, arricciò il muso, salto giù dal divano e sprofondò le vibrisse nella ciotola che la moglie aveva appena fatto in tempo ad appoggiare a terra. La donna prese l’elegante porta-ritratto in cristallo sopra il mobile lì all’ingresso. Come ogni sera lo contemplò per qualche istante poi lo baciò. Una lacrima le solcò il viso. Il gatto smise di mangiare, tutto assorto ricambiò il suo sguardo e le rivolse un supplichevole miagolio. Non si faceva illusioni, dopo tanti anni ormai non sperava più che lei se ne accorgesse. La donna lo accarezzò distrattamente, posò la cornice e si lasciò cadere sul divano, stanca e triste.

CERN di Ginevra, 21 Dicembre 2012, ore 12:21
Il professor Alberto Istano percorreva a grandi falcate il lungo corridoio. Era raggiante. Cercava di immaginare le decine di articoli e di pubblicazioni su tutte le riviste più importanti, già vedeva la sua foto su Science. Aveva dedicato a quel progetto dieci anni della sua vita, dodici ore al giorno recluso sotto terra. Ogni tanto qualche neon sul soffitto diventava intermittente. Finalmente la dottoressa Martini, la giovane carinissima Elisa si sarebbe accorta di lui invece di perdere il suo tempo dietro a quell'incompetente di Adolfi e alla sua cretina teoria delle stringhe. Una teoria cretina per uno scienziato idiota: tutto quadrava, formula perfetta. Le stringhe sì...ma figuriamoci...perché allora non corde di violino, o di chitarra...?!; manco fossero dei musicisti! Che idiozie. Adolfi da ragazzo doveva essersi fatto parecchie canne strimpellando Battisti nei falò estivi sulla spiaggia. Ma adesso tutto il mondo si sarebbe dovuto ricredere. L'altro ieri aveva visto la Martini guardare di nascosto Adolfi mentre lui scarabocchiava alla lavagna le sue equazioni strampalate. Lo stesso Adolfi che si era fermamente opposto all'esperimento prospettando il rischio di un buco nero che avrebbe potuto fagocitare tutta la Terra. L'aveva sgamata, se ne era accorto. D'ora in poi quegli sguardi sarebbero stati solo per lui. Doveva pensare a una seratina romantica con Elisa, l'indomani l'avrebbe invitata a cena. Già la vedeva arrossire e rispondere un timido sì con quei suoi occhioni azzurri dietro le spesse lenti. Avrebbero mangiato pesce, non voleva badare a spese: vino bianco frizzante fra i più pregiati (lui era un intenditore, aveva il diploma di sommelier), tagliata di tonno, frittura e per finire le immancabili ostriche con champagne. Spinse con forza il pesante portone d'acciaio ed entrò nella immensa sala-comando dell' HLC. Tutti erano già lì ad attenderlo. Gli altri ricercatori erano in piedi disposti a semicerchio, tutti con lo stesso camice bianco, la stessa targhetta identificativa appesa al taschino e la stessa cartellina rossa sottobraccio. Alberto Istano respirava a pieni polmoni il suo momento di gloria. Da otto giorni non aveva fatto altro che ripassare col suo team lì riunito tutte le fasi dell'esperimento. Gli undici scienziati più capaci del pianeta avevano ricontrollato puntigliosamente tutte le formule, le equazioni e i grafici. Le menti più brillanti di questo universo si erano arrovellate dibattendo la questione fino al limite del conoscibile e del sopportabile. Adesso l'ultimo atto di quell'opera sublime, l'ultima tessera di quel celestiale mosaico spettava a lui, Alberto Istano. Non si era mai sentito in tutta la sua vita così euforico e così potente. Avrebbe voluto che quel momento fosse eterno. Per un attimo ammise l'esistenza di Dio. Lui era Dio. Non giocava a fare Dio, era Dio. Dondolava lo sguardo tra l'Adolfi e la Martini, a dominare lui e corteggiare lei. Mi dispiace caro Adolfi, il tuo fisico giovane e sportivo deve inchinarsi alla maestà della sovrumana trascendente sapienza. L'atmosfera era tesissima. Tutti guardavano e aspettavano lui. Istano si sedette al pannello di controllo. Espirò profondamente e lentamente. Qualcuno dei collaboratori sudava freddo. Il grosso bottone rosso al centro del quadro esigeva di essere premuto. Era il momento. Istano allungò con prudenza la mano e posizionò solennemente il palmo sopra il bottone. Si voltò furtivo a cercare Elisa. Lei abbassò impaurita lo sguardo. Premette il bottone. Un attimo, fermi tutti: ma se la massa del muone 3-Gamma è inferiore a y/π3+1/4...forse allora la soglia di energia critica potrebbe effettivamente generare un buco nero che inghiottirebbe in un istante l'intero pianet

Erano stati i tre mesi più strabilianti della sua vita. Erano volati, come sempre forse in questi casi. Una cosa simile non l'avrebbe mai e poi mai immaginata. La moto da enduro si arrampicava lesta su per la collina. Sorrideva mentre si gustava l'acuto gracchiare della sua Aprilia. Un vento leggero aggirava il casco aperto e gli carezzava il viso. Ai lati della stradina ripida e sconnessa scorrevano le macchie verdi dei cespugli e quelle gialle delle mimose. Il cielo era terso. Era felice. La primavera stava sbocciando, come il suo nuovo amore. Tra poco l'avrebbe incontrata. Amor vicit omnia, è proprio vero: tutti quelli che l'hanno provato ve lo confermeranno. Potete scomodare i classici greci o latini, potete consultare Freud: troverete che l'innamoramento ha effetti prodigiosi, è quel “sole caldo che guarisce tutti i mali”, come cantavano i Nomadi. Si sentiva così, potentissimo e felice, libero e padrone del suo destino come non mai.
Lei lo aspettava seduta sulla riva del laghetto. La giornata era splendida e l'arrivo della bella stagione la inebriava. Una brezza gradevolissima increspava impercettibilmente lo specchio d'acqua e scompigliava sommessamente le fronde dei lecci e dei cipressi tutto intorno. Ripensò alla prima volta che si erano incontrati. Era febbraio, forse. Faceva freddo e pioveva forte. All'improvviso la spaventò un rumore acutissimo, come un urlo e un attimo dopo una moto saltò fuori da un cespuglio e scivolò malamente sul fango. Il pilota atterrò bruscamente a pochi passi da lei, per poco non finì nel lago. Lì per lì ebbe paura per la sua vita. Ricordò il sollievo, l'amarezza e la tenerezza che provò quando si accorse che l'uomo era vivo, ma rimaneva a terra, il casco mezzo sommerso nella melma, a mescolare lacrime e pioggia.
Guardava con trepidazione l'orologio. Mancava poco ormai. Da dietro un albero puntava il binocolo in direzione del lago e scrutava la stradina bianca e polverosa che scendeva dalla collina.
Si divertiva a strapazzare la sua RX. Quella moto aveva quasi vent'anni ma lo emozionava ancora, anzi adesso che la guidava come per distruggerla era la fine del mondo. Infilava le marce senza frizione e si fiondava nelle curve a gomito scalandone anche tre assieme, tanto il due tempi non aveva freno motore. D'un tratto intravvide un bellissimo prato fiorito là in basso. Poco dopo era di nuovo in sella, con una rosa bianca per il loro anniversario, a tutto gas dalla sua bella.

Eccolo, come ogni giorno era arrivato, puntuale. Li spiava da dietro l’albero, sporgendosi dal tronco il minimo indispensabile per non essere scoperto.

Le sorrise e le porse la rosa. – Per te, per noi, per il nostro anniversario. – Ma dai, sono solo tre mesi – si schernì la fanciulla. Si sedettero in riva al lago, lui si fece serio serio e prese subito la parola – Ascoltami bene, devo dirti tante cose, cioè non tante ma molto importanti. Scusami sono emozionato, è difficile. – Lei ascoltava assorta, gli strinse le mani e gli sorrise. – Lo so che ci conosciamo da poco – proseguì lui –magari mi dirai che è troppo presto, che è una cosa avventata. Ma nella nostra situazione…già siamo abbastanza strani…non trovi? – Lei abbassò lo sguardo e una folata improvvisa agitò il prato in lunghe onde – Boh, forse è presto, forse sono avventato…forse sono pazzo…ma a questo punto… in questa situazione…la verità è che non mi sono mai sentito così. Dopo tantissimo tempo finalmente sto bene. Sì, sto bene. Non avevo mai incontrato una ragazza come te… - Sorrisero entrambi, lei lo baciò- Dai, lo so, non dire nulla – continuò lui – Ti amo. Ti amo e voglio stare con te. – Lei stava per intervenire ma lui la bloccò subito appoggiandole un dito sulle labbra – No, dai, fammi finire. So cosa vuoi dire, cosa stavi per dire. Voglio stare con te a tutti i costi. Al diavolo mia moglie. Mi dispiace solo per i miei figli, ma tra poco saranno grandi e potranno decidere da soli se vedermi o no. A loro voglio bene, loro mi mancano. Ma non rinuncerò mai a te.
-Io sono legata a questo luogo, a questo lago. La primavera è alle porte, ma ti ricordi quest’inverno…non posso…non voglio chiederti questo. – Un gabbiano planò sul pelo dell’acqua, il sole si perse dietro un grosso nuvolone bianco.
-Ho deciso. – Lui le sorrise e la baciò, a lungo questa volta.
- Chissà cosa verrà a fare tutti i giorni qui da solo…mah…sempre a quest’ora… - pensò il tizio nascosto dietro l’albero – adesso cosa fa?! Parla pure da solo?!...Bah…è scemo secondo me…


Le tempie gli pulsavano tremendamente. Il dolore divenne molto presto insopportabile. Istintivamente cercò di sollevare la mano destra. Qualcosa la bloccava. Schiuse a fatica le palpebre, anche gli occhi erano intorpiditi. Intorno a lui fluttuava un magma grigiastro, si vide inchiodato ad una scranna sospesa su un precipizio.
Una settimana prima…
Sorrideva seduto al bancone del bar. Si voltò ad osservare i clienti. Un ragazzino coi capelli lunghi e delle cuffie enormi era immerso in un tomo di fisica: probabilmente uno studente. Non lo vedeva in faccia ma aveva lo sguardo spento, ci avrebbe scommesso. L’omaccione di fianco a lui invece era incazzato. La camicia a quadri rossi e blu, canottiera nera sudicia di manate bianche, ingurgitava un enorme sfilatino lattuga e prosciutto e trangugiava una Peroni ghiacciata: un muratore di sicuro. Nel tavolino vicino alla vetrata una coppietta discuteva animatamente. Lui si sbracciava anche se tentava di non alzare la voce, si vedeva chiaramente che era molto agitato. Lei non diceva nulla, teneva lo sguardo basso sulla sua tazza di tè annuendo di tanto in tanto. Magari si sarebbero lasciati di lì a poco. Cavalcando quel pensiero si concentrò sui capelli biondi, lunghi, sottili, sul golfino bianco, sull’allettante collana d’argento, sul pendaglio a cuoricino e sulla scollatura che faceva intravvedere un seno gentile ma sensuale. Pelle bianchissima, classica bellezza finlandese. Si distrasse un attimo immaginando come provarci, ma subito tornò ad invaderlo quel caldissimo senso di superiorità. Si sentiva quasi un dio fra gli uomini. La cosa che lo inebriava di più era che nessuno poteva nemmeno lontanamente intuire il suo segreto. Negli occhi degli altri vedeva il riflesso della sua vita sfolgorante e compativa di contro le loro misere esistenze. Gettò un’occhiata alla sua Maserati parcheggiata lì davanti in corrispondenza dei fidanzatini litigiosi. Tornò sullo studentello: avrà avuto, quanti? Due, tre, cinque anni meno di lui…?? Beh, anche fra dieci anni sicuramente non si sarebbe potuto permettere una supercar come la sua Gran Turismo. Estrasse di qualche centimetro dalla tasca il suo iPhone, giusto per vedere al volo che ora fosse. Le cinque. Decise che era ora. Richiamò la barista con un gesto appena percettibile e ordinò un espresso. Gli occhi gli si accesero mentre contemplava la minuscola tazzina fumante. Un potere così grande in un oggetto così piccolo. Lo bevve tutto d’un sorso, si scottò la lingua e il palato, ma non ci fece nemmeno caso. Aspettò qualche istante che i fondi si calmassero. Fece un respiro profondo. Si guardò intorno con circospezione. Prese il telefonino, armeggiò velocissimo sul display e in men che non si dica avviò l’applicazione “Caffeomanzia”. Si guardò intorno una seconda volta, con diffidenza ed apprensione. Si concentrò al massimo in modo da avere la mano più ferma possibile e scattò una foto alla tazzina di caffè. Il software elaborò qualche istante e infine diede il responso: una stella, vale a dire “cambiamenti positivi”. Si alzò di scatto e inforcò l’uscita ma proprio sulla porta si imbatté e lievemente sbatté contro una ragazza che stava entrando. Le caddero diversi fogli protocollo che spuntavano dalla borsetta. – Scusi – borbottò distrattamente mentre la ragazza era intenta a radunare i fogli sul marciapiede – Stia più attento! – lo apostrofò acida la sconosciuta ma non appena alzò lo sguardo il tono si ammorbidì e da dietro le lenti eleganti un guizzo attraversò due splendidi occhi verdi . Di colpo sembrava un po’ meno arrabbiata e un po’ più turbata – Non fa niente dai – sussurrò lievemente imbarazzata – No, scusami invece, sono un cretino, ti aiuto a raccogliere – I due si trovarono faccia a faccia accovacciati, le mani si sfiorarono; galeotto fu il foglio protocollo. Il rombo della Maserati squarciò l’aria mentre il fortunato ragazzo accompagnava a casa la sua nuova fiamma.

Pian piano la stanza intorno a lui prendeva forma. Era in un seminterrato. Da una finestrella lurida e scheggiata intravvedeva il via vai dei passanti. Tutto intorno piastrelle bianche. Era legato mani e piedi ad una pesante sedia di metallo, gelida. Raccolse le forze ancora esigue e tentò di liberarsi ma le corde erano strettissime e come se non bastasse c’erano molti giri di spesso nastro isolante a rinforzarle. Lo stesso nastro isolante gli comprimeva in gola una matassa di stracci maleodoranti. A terra erano disseminati parti anatomiche, brandelli di carne e grumi di poltiglia sanguinolenta. Di colpo ricordò tutto: la cenetta romantica a casa di Laura, l’avvocatessa cui solo una settimana prima aveva sbattuto in faccia la porta del bar e infine il caffè. Era uscita la “Foglia”, “entrate di denaro”. Gli sovvenne di come fosse capitato in quel negozio di telefonia insolitamente deserto. Di come con grandissima sorpresa avesse trovato il registratore di cassa aperto e straripante di contante. Di come dopo aver atteso a lungo si fosse deciso ad intascare il malloppo. Il suo iPhone era appoggiato in piedi su un tavolo alla sua destra. Un’icona arancione lampeggiava forsennatamente e anche da dov’era poté leggere: “Opzione alternativa Serpente – Cercheranno di nuocervi”. La porta si aprì lentamente e ne entrò un energumeno in passamontagna che senza dire una parola, con passo flemmatico prese da un cassetto un vecchio seghetto arrugginito.